Quando il carcere soffoca: la realtà dei trasferimenti dei detenuti in Italia

In Italia, la privazione della libertà non dovrebbe mai tradursi in privazione della dignità. Eppure, la realtà delle carceri e dei trasferimenti dei detenuti racconta spesso un’altra storia: una storia fatta di condizioni al limite della sopportazione umana, di celle sovraffollate, di viaggi in furgoni blindati che trasformano lo spostamento da un carcere all’altro in un’esperienza umiliante e disumana.

Un viaggio che toglie il respiro

Un racconto emblematico di questa realtà è stato pubblicato nell’ultima edizione del giornale di Nessuno tocchi Caino. Gioacchino Calabrò, detenuto all’ergastolo nel carcere di Opera, ha descritto in prima persona il suo trasferimento su un furgone della polizia penitenziaria. Nel suo resoconto emerge tutta la disumanità di un’esperienza che dovrebbe essere una semplice procedura amministrativa. Rinchiuso in una celletta blindata all’interno del furgone, uno spazio talmente angusto da impedirgli quasi di respirare, Calabrò racconta la sensazione di soffocamento, l’impossibilità di muoversi e la totale mancanza di aria. Un viaggio che, nelle condizioni attuali, assomiglia più a una punizione aggiuntiva che a un normale spostamento tra istituti di pena. L’esperienza di Calabrò non è un caso isolato. Ogni giorno, detenuti in tutta Italia vengono trasferiti in condizioni analoghe, costretti a trascorrere ore in compartimenti angusti, senza sapere quanto durerà il viaggio o se avranno accesso a un minimo di ventilazione. Per chi soffre di ansia, claustrofobia o problemi respiratori, ogni trasferimento può trasformarsi in un incubo.

Punizione o tortura?

Il tema delle condizioni detentive in Italia non si esaurisce nei problemi strutturali delle carceri, come il sovraffollamento o la mancanza di personale, ma si estende a tutto ciò che ruota attorno alla vita dei detenuti, compresi i trasferimenti. L’articolo 27 della Costituzione italiana è chiaro: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma quale funzione rieducativa può avere un sistema che umilia, opprime e priva di ogni residuo di dignità? Non si tratta di pretendere privilegi, ma di rivendicare il rispetto dei diritti umani anche per chi ha sbagliato. Uno Stato che decide di privare una persona della libertà ha il dovere di garantirle, comunque, un trattamento dignitoso. Ma rinchiudere un essere umano in uno spazio angusto, senza aria e senza possibilità di movimento, anche solo per alcune ore, significa ignorare questo principio e trasformare una pena legittima in una forma di tortura.

Un cambiamento necessario

La pubblicazione della testimonianza di Calabrò su Nessuno tocchi Caino è un segnale importante: il problema esiste, ed è ora che se ne parli apertamente. Affrontare questa realtà significa rivedere non solo le modalità di trasporto dei detenuti, ma l’intero approccio alla pena in Italia. Se vogliamo davvero un sistema che rispetti la Costituzione e i diritti umani, dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che certe pratiche non sono più accettabili. Il primo passo è parlarne, rompere il silenzio su queste condizioni inaccettabili e chiedere riforme che garantiscano trattamenti umani per tutti. Perché uno Stato che calpesta la dignità dei detenuti non solo tradisce i suoi principi fondamentali, ma finisce per soffocare anche il senso stesso di giustizia.

Aggiornato il 31 marzo 2025 alle ore 10:17