L’inefficiente gestione del servizio idrico italiano

In occasione della Giornata mondiale dell’acqua (che si celebra, ogni anno, il 22 marzo), l’Istat ha presentato i risultati (per gli anni 2020-2024) relativi alla gestione del servizio idrico italiano. Al 2022, i gestori dei servizi idrici per uso civile sono 2.110, di cui 1.738 in economia (82,4 per cento), ovvero Comuni ed enti locali, e 372 specializzati (17,6 per cento), con il compito di svolgere almeno uno dei seguenti servizi idrici pubblici: prelievo e distribuzione dell’acqua potabile, fognatura, depurazione delle acque reflue urbane. L’istituto di statistica evidenzia (come negli anni passati) come i Comuni italiani registrino dati non confortanti sulla distribuzione dell’acqua. Il servizio gestito direttamente dai Comuni o dagli enti locali presenta perdite idriche totali in distribuzione pari al 45 per cento del valore immesso in rete. Di contro, nelle gestioni specializzate, il valore delle perdite in distribuzione è complessivamente inferiore e risulta pari al 41,9 per cento. Insomma, siamo di fronte alla irrisolta questione delle perdite della rete italiana degli acquedotti (che si estende per 425mila chilometri), con un 25 per cento degli stessi che supera addirittura i 50 anni. Una rete colabrodo, vittima dell’inefficienza e dell’incapacità dell’attuale e farraginoso sistema di governance di investire nelle infrastrutture idriche, una carenza manageriale che si manifesta in particolare nelle gestioni pubbliche, tra quelle in economia (realizzate direttamente dagli enti locali) e quelle cosiddette in house, ossia operate da SpA ma controllate dal pubblico. Inutile dire, inoltre, che la volontà dei Governi di turno di interessarsi alla questione sia quanto mai scarsa. Il confronto, poi, con l’Unione europea è impietoso: la spesa media Ue in termini di investimenti nel settore idrico è di ottantadue euro all’anno per abitante, mentre quella italiana è meno della metà, ovvero trentotto euro. Solamente le maggiori utilities, come ad esempio A2A e Acea, riescono a fare investimenti adeguati, ma rimangono sempre sotto la media Ue: parliamo di non più di cinquantasei euro per abitante. Quanto ai piccoli Comuni, c’era da aspettarselo: un piatto povero, di soli otto euro all’anno per abitante. Ed è una media anche questa.

Nonostante l’Italia abbia un patrimonio idrico fra i più ricchi in Europa, con un prelievo (al 2022) di acqua dolce giornaliera (circa l’85 per cento proviene dalle acque sotterranee) per uso potabile pari a 9,14 miliardi di metri cubi, non siamo stati capaci di sfruttare al meglio una condizione naturale tanto vantaggiosa; un vero peccato. La rete idrica, però, non è costituita solo da infrastrutture che alimentano i consumi, ma anche da impianti in grado di recuperare le acque di scarico attraverso le condotte fognarie per poi avviarle ai depuratori al fine di rimuovere gli agenti inquinanti. Ebbene, queste installazioni sono costituite da venticinquemila chilometri di condutture vecchie, mal manutenute, mai ammodernate e dove l’era digitale, con i suoi sensori in grado di individuare istantaneamente un guasto, risulta ancora un miraggio. Parliamo, tra l’altro, di impianti privi di interconnessioni tra loro. Un fenomeno che genera spesso interruzioni del servizio, soprattutto nelle regioni del sud Italia, con oltre novecento procedure di infrazione Ue sempre pronte a scattare. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha previsto circa due miliardi di euro per la modernizzazione della rete idrica (soprattutto nel Mezzogiorno), in particolare attraverso l’introduzione di sistemi di controllo avanzati e digitalizzati che permettano una gestione ottimale delle risorse, riducendo gli sprechi e limitando le inefficienze. Tali investimenti saranno fondamentali anche per affrontare (senza problemi) la transizione digitale, poiché l’oro blu serve e servirà sempre di più anche per dissetare l’Ia, raffreddando i suoi data center.

(*) Presidente di Ripensiamo Roma

Aggiornato il 26 marzo 2025 alle ore 11:32