
Non è una questione di valori. Non è nemmeno una questione di morale. La vicenda dell’insegnante trevigiana che ha abbandonato il suo posto in un asilo per vendere immagini personali su Onlyfans è stata trattata come l’ennesimo episodio della crisi etica del nostro tempo. Da una parte, chi la difende in nome della libertà di scelta e della possibilità di guadagno. Dall’altra, chi denuncia la dissoluzione di ogni riferimento stabile, l’incapacità della società di trasmettere principi in grado di orientare le azioni. Ma questa lettura, incentrata sul contrasto tra etica e denaro, è fuorviante. Il punto non è se una decisione sia giusta o sbagliata. Il punto è che il mondo contemporaneo non è più in grado di formulare la domanda stessa. Viviamo in un’epoca in cui ogni scelta è equivalente non per un generico relativismo, ma perché il sistema in cui siamo immersi esclude la possibilità stessa che esista qualcosa di vero.
Non siamo davanti a una crisi dei valori, perché la crisi presuppone che ciò che si sta dissolvendo abbia ancora una qualche realtà. Siamo piuttosto davanti a un mondo in cui la questione del senso non si pone più, sostituita da un solo criterio: ciò che può essere fatto, deve essere fatto. Non è il capitalismo il motore di questa trasformazione. Il capitalismo è una funzione del sistema tecnico, non la sua causa. Il suo obiettivo è il profitto, ma la tecnica non persegue il denaro: persegue l’incremento indefinito della potenza. Il denaro è solo uno degli strumenti con cui questo incremento si realizza. Il cuore del problema non è che qualcuno scelga il profitto invece dell’educazione, ma che l’educazione stessa sia ormai sottoposta alla stessa logica di incremento della potenza che regola ogni altro ambito della civiltà contemporanea. Insegnare o esporre la propria immagine non sono più scelte opposte, ma funzioni diverse dello stesso meccanismo.
La piattaforma digitale che ha permesso all’insegnante di cambiare lavoro non è un semplice strumento nelle mani di un soggetto autonomo, ma parte dell’ambiente stesso – la tecnica – in cui certe decisioni diventano pensabili. La tecnica non offre alternative: dispone il mondo in modo che le alternative siano già predefinite. Chi sceglie non fa che adattarsi alle possibilità già organizzate dall’apparato tecnico. Eppure, si continua a parlare di libertà, come se l’essere umano fosse ancora il centro delle proprie decisioni. Ma in cosa consiste questa libertà? Non si tratta più della facoltà di determinare il proprio cammino, ma della possibilità di muoversi all’interno di un sistema che ha già stabilito ciò che è possibile. L’illusione è credere che la scelta abbia ancora un valore, quando in realtà non è che la selezione tra opzioni già date. E non potrebbe essere altrimenti, perché la tecnica non ha bisogno della verità. Non deve giustificare sé stessa. Si espande, si rafforza, supera i propri limiti, senza che nulla possa arrestarne il movimento.
L’errore sta nel credere che il mondo tecnico sia un mondo neutrale, uno spazio in cui gli individui esercitano la loro libertà di scelta. In realtà, è la tecnica a determinare le condizioni della libertà. Non siamo noi a usare la tecnica, è la tecnica che usa noi. Non perché ci imponga qualcosa con la forza, ma perché definisce il contesto in cui ogni azione è possibile. L’insegnante trevigiana non ha fatto nulla di diverso da chiunque altro: ha seguito la logica del mondo in cui vive. Un mondo in cui il capitalismo appare come il protagonista, ma in cui la vera regia è altrove. Se il denaro fosse l’unico criterio, la società potrebbe ancora interrogarsi sulla sua funzione, potrebbe ancora chiedersi se esista qualcosa che abbia valore al di là del profitto. Ma la tecnica non lascia spazio a queste domande. Non perché le neghi, ma perché le supera.
Il problema, dunque, non è etico. Non si tratta di discutere se sia giusto o sbagliato abbandonare l’insegnamento per un’attività più redditizia. Né economico, perché la questione non è la ricerca del profitto, ma il fatto che l’intero orizzonte umano sia ormai strutturato secondo una logica che non ha bisogno di fini, ma solo di espandere la propria potenza. È questo il nichilismo compiuto: non l’assenza di valori, ma il dominio incontrastato di un sistema che non si interroga più sul senso di ciò che produce. Come ammoniva Günther Anders: “Non è il mondo a essere a nostra disposizione, ma siamo noi a essere a disposizione del mondo della tecnica”. In questa inversione risiede il più profondo enigma del nostro tempo. Eppure, proprio in questa apparente assenza di alternative potrebbe celarsi l’unica possibilità di “pensare Altro”.
Aggiornato il 24 marzo 2025 alle ore 10:01