
L’attuale dibattito sulla legislazione riguardante il fine vita, come tutte le più emergenti vicende bioetiche e biogiuridiche, si colloca al crocevia tra diritto, etica e filosofia. L’insufficienza – oramai nota da tempo – della prospettiva puramente positivista, come di quella meramente sociologica, del modo di intendere e concepire il diritto richiede, tuttavia, che non ci si possa limitare all’idea che qualunque legislazione o normativa formalmente valida sia anche intrinsecamente giuridica, cioè volta alla tutela del bene effettivo e della persona umana nella sua integralità. In questa direzione, data l’insufficienza del paradigma sociologico, come l’inadeguatezza del cosiddetto “attivismo giudiziario” sempre più propenso a divenire – secondo la felice formula critica di Luigi Ferrajoli – una vera e propria forma di “creazionismo giudiziario”, non si può fare a meno di constatare che la ricchezza epistemica e la fecondità giuridica della tradizione del diritto naturale classico non possono che comportare una irrinunciabile forma di sollecitazione per la coscienza del giurista di oggi che su queste simili delicate tematiche si accinge a riflettere e operare.
Se, infatti, si assume come punto di riferimento il diritto naturale classico di matrice aristotelico-tomista, appare evidente come qualsiasi norma positiva che sancisca la legittimità dell’eutanasia o del suicidio assistito sia radicalmente contraria alla legge naturale stessa, nonché alla razionalità dell’ordine ontologico. Il diritto naturale classico, infatti, si fonda su una ben precisa concezione teleologica dell’essere umano, sulla sua intrinseca finalizzazione al bene e sulla priorità della vita come dono e compito, non come oggetto di arbitraria disposizione. Per Aristotele e Tommaso d’Aquino, la natura umana è intrinsecamente orientata alla realizzazione del bene, e tale realizzazione è possibile solo nella misura in cui l’essere umano vive secondo la sua essenza razionale. La vita è il primo bene fondamentale perché è la condizione di possibilità di ogni altro bene: senza la vita, nessun altro valore può essere perseguito.
Il suicidio, dunque, e a maggior ragione il suicidio assistito o l’eutanasia, si pongono in aperta contraddizione con questa struttura teleologica della natura umana. Agire moralmente significa agire in conformità alla legge naturale, la quale è partecipazione alla legge eterna, e nessun uomo può legittimamente autodistruggere se stesso senza negare il proprio fine. San Tommaso d’Aquino, non a caso, nella “Summa Theologiae”, ha avuto modo di distinguere con chiarezza tra ciò che è conforme alla legge naturale e ciò che le è contrario sulla base dell’ordine stesso dell’essere. Il suicidio è condannato per tre ragioni fondamentali: in primo luogo, perché è contrario alla naturale inclinazione dell’uomo alla conservazione della propria vita; in secondo luogo, perché priva la comunità di un suo membro, danneggiando così il bene comune; in terzo luogo, perché la vita appartiene a Dio, e solo lui ne è padrone.
Da queste premesse discende in modo logico e stringente l’incompatibilità tra il diritto naturale classico e qualsiasi legge che autorizzi atti di eutanasia o suicidio assistito. L’idea stessa di una “autodeterminazione” assoluta sul proprio corpo, o meglio di “libertà negativa”, è estranea al pensiero aristotelico-tomista. L’essere umano non è un individuo isolato, padrone sovrano della propria esistenza, ma un ente relazionale, inscritto in una comunità e parte di un ordine ontologico superiore. Una legge che consentisse l’eliminazione volontaria della vita umana negherebbe implicitamente l’esistenza di un bene oggettivo superiore alla volontà individuale e dissolverebbe il fondamento stesso del diritto, che non può ridursi a una mera volontà positiva dello Stato o del singolo.
L’errore di fondo di ogni legislazione sul fine vita risiede nella sua visione riduttiva dell’essere umano, considerato non più come una creatura dotata di un fine intrinseco, ma come un’entità puramente materiale la cui esistenza dipende dalla sua volontà soggettiva. Ciò equivale a negare la razionalità dell’ordine naturale e a sostituire la legge morale con un puro volontarismo. Tuttavia, la legge naturale non è soggetta a mutamenti arbitrari, perché si fonda sulla stessa essenza dell’uomo e sull’ordine metafisico che lo costituisce.
In definitiva, qualsiasi legge che disciplini e autorizzi il fine vita è contraria al diritto naturale classico perché nega la sacralità della vita, sovverte l’ordine naturale e dissolve il fondamento metafisico del diritto. Accettare una simile legislazione significa aderire a una concezione relativistica e nichilista dell’esistenza umana, in cui il valore della vita è subordinato alla volontà individuale piuttosto che riconosciuto come bene oggettivo e inviolabile. La legge naturale, nella sua razionalità intrinseca, esige invece il rispetto della vita fino alla sua fine naturale, senza concessioni a una logica utilitaristica o sentimentalistica che non tiene conto della verità dell’essere.
(*) Tratto dal Centro studi Livatino
Aggiornato il 21 marzo 2025 alle ore 18:07