Una risposta al teologo Vito Mancuso
Un’inaspettata inversione di rotta quella di Vito Mancuso che, dalle pagine de La Stampa, propone una tesi destinata a far discutere. Il teologo, noto per le sue posizioni critiche verso la gerarchia ecclesiastica e il suo sostegno ai pensatori eterodossi, sorprende i lettori con un’appassionata difesa dell’obbedienza come virtù fondamentale per la società contemporanea. La sua riflessione parte da un confronto storico: se ai tempi di don Lorenzo Milani era "sacrosanto" affermare che l'obbedienza non fosse più una virtù, oggi il contesto appare radicalmente mutato. Secondo Mancuso, il Sessantotto ha prodotto un’equazione fuorviante tra disobbedienza e libertà, che ha finito per minare le fondamenta stesse dell’apprendimento e della crescita personale. Il teologo costruisce il suo ragionamento partendo dall’etimologia: disciplina deriva dal verbo latino discere, imparare. Un legame linguistico che rivela una profonda verità: senza disciplina non può esserci vero apprendimento. Che si tratti di musica, sport o matematica, sostiene Mancuso, è necessario sottomettersi a regole e metodi precisi per raggiungere risultati duraturi.
La preoccupazione di Mancuso si estende all’intero tessuto sociale: dalla scuola alle famiglie, dai rapporti interpersonali alla cultura. Il declino della lettura e della comprensione profonda dei testi viene ricondotto proprio a questa perdita del valore della disciplina. La cultura, ricorda il teologo, non è fatta di emozioni e chiacchiere, ma richiede metodo, dati e argomentazioni rigorose. Nel suo articolo, Mancuso propone dunque un ripensamento radicale dei valori che guidano la società contemporanea, invitando a riscoprire quell’obbedienza che, lungi dall’essere un freno alla libertà personale, ne costituisce invece il fondamento necessario. Ora, è bene ricordare che nel dibattito sull’obbedienza si fronteggiano storicamente due visioni apparentemente inconciliabili. Da un lato, la tradizione che vede nell’obbedienza il fondamento dell’ordine sociale e della crescita individuale, che dalla paideia platonica attraversa il pensiero cristiano fino a pensatori contemporanei come Alasdair MacIntyre, che vedono nella sottomissione a regole e autorità legittime la base per lo sviluppo morale e intellettuale. Dall’altro, la linea critica che da Socrate passa per l’Illuminismo fino a pensatori come Michel Foucault, che interpreta l’obbedienza come dispositivo di potere, strumento di controllo sociale che limita l’autonomia e il pensiero critico.
La posizione di Mancuso, pur nel suo tentativo di mediazione, sembra propendere per la prima visione, identificando nella crisi dell’obbedienza la radice del declino culturale contemporaneo. Tuttavia, lasciando da parte la polemica personale con Mancuso che fino all’altro ieri sosteneva il contrario, questa lettura rischia di non cogliere il nucleo essenziale sulla questione educativa. La tradizione filosofica italiana del Novecento, spesso colpevolmente ignorata, ci suggerisce una prospettiva più radicale: l’educazione autentica trascende la dialettica tra obbedienza e disobbedienza, collocandosi sul piano del rapporto con la verità. Non si tratta di scegliere tra sottomissione e ribellione, ma di comprendere come il pensiero, nel suo movimento più proprio, sia già sempre in relazione con una necessità che non è né imposta dall’esterno né scelta arbitrariamente. Quando il pensiero incontra la verità – in ogni ambito: dal giardinaggio all’astrofisica – non sta né obbedendo né disobbedendo, ma sta riconoscendo qualcosa che si impone per la sua intrinseca necessità. L’autoeducazione, in questo senso, non è un processo individualistico di emancipazione, né una sottomissione a regole esterne, ma il movimento stesso del pensiero che si conforma alla necessità del vero.
In questa prospettiva, il problema posto da Mancuso rivela una natura più complessa: ciò che la nostra epoca sta attraversando non è tanto una crisi dell’obbedienza, quanto un profondo disorientamento nel rapporto con la verità. L’educazione autentica non si risolve nella dialettica tra sottomissione e ribellione, ma richiede la capacità di riconoscere ciò che si manifesta come necessario al pensiero stesso. Il compito che ci attende, dunque, non è quello di stabilire se l’obbedienza sia o meno una virtù da recuperare, ma di ripensare il nostro rapporto con un orizzonte di senso che precede sia l’obbedienza che la disobbedienza. È questa la sfida educativa fondamentale del nostro tempo: coltivare quella disposizione del pensiero che sa riconoscere e accogliere ciò che si manifesta nella sua intrinseca necessità.
Aggiornato il 04 febbraio 2025 alle ore 13:13