La Corte costituzionale, questa settimana, ha reso noto, con un comunicato stampa, di aver dichiarato inammissibile la richiesta di un referendum per abrogare l’articolo 579 del Codice penale. Si tratta della norma che punisce, con la reclusione da 6 a 15 anni, l’omicidio del consenziente, con una sanzione meno grave rispetto a quella prevista per l’omicidio comune, punito con la reclusione non inferiore a 21 anni. L’obiettivo dei promotori, tra cui realtà del mondo dei radicali, era d’introdurre in Italia l’eutanasia, eliminando la punizione dell’omicidio del consenziente, salve le ipotesi di un minore, di una persona “inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica” o la cui richiesta fosse stata determinata da “violenza, minaccia suggestione” o “inganno”. La Corte costituzionale avrebbe potuto dichiarare inammissibile la richiesta referendaria in quanto non solo abrogativa, secondo quanto previsto dall’articolo 75 della Costituzione, ma in realtà propositiva. La Consulta ha, invece, deciso l’inammissibilità poiché abrogando l’articolo 579 del codice penale “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.
La decisione della Corte suggerisce alcune considerazioni. Anzitutto va ribadito, come più volte sottolineato dalla stessa Consulta, che il diritto alla vita è il primo e più importante dei diritti inviolabili, in quanto presupposto per il godimento di tutte le altre posizioni giuridiche. I diritti inviolabili, come magistralmente ricordato da Baldassare, presentano “i caratteri della indisponibilità, della inalienabilità, della intrasmissibilità, della irrinunciabilità e della imprescrittibilità”: per ciò che qui interessa, essi sono caratterizzati dall’impossibilità per il titolare di disporne, “autoprivandosi” definitivamente del loro godimento. Questa elementare considerazione era chiara fino a qualche anno fa. Oggi, tuttavia, essa è sottoposta a forti tensioni, alcune delle quali avallate anche dalla stessa giurisprudenza costituzionale, come nel caso DJ Fabo/Cappato. In esso il giudice delle leggi è giunto a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, norma che punisce l’assistenza al suicidio, nell’ipotesi di “persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
La seconda considerazione prende spunto dalla conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale, immediatamente successiva alle decisioni della Corte sulle richieste di referendum sottoposte al giudizio d’ammissibilità. Il presidente si è detto ferito dalle critiche ricevute per una presunta insensibilità della Corte alle ragioni dei sofferenti che avrebbero richiesto l’eutanasia. Queste affermazioni dimostrano, al contrario, l’importanza dell’impegno dei sostenitori delle ragioni del diritto alla vita sul piano sociale e culturale. Infatti, sui maggiori quotidiani nazionali la decisione della Corte è stata accolta negativamente, dando ampio spazio a quella che, nel magistero dei Pontefici degli ultimi 50 anni, viene qualificata come cultura della morte o cultura dello scarto. In opposizione a questa spinta, le associazioni che invece ritengono inviolabile il diritto alla vita – e, tra esse, quelle cattoliche – hanno un ruolo fondamentale nel promuovere con le opere, la testimonianza e la presenza nel dibattito pubblico le ragioni della vita per ribadire che, come ha ricordato recentemente Papa Francesco, quest’ultima “è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata”.
(*) Ordinario di Diritto costituzionale – Università Europea di Roma
Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
Aggiornato il 23 febbraio 2022 alle ore 08:57