La vigilia del 2 giugno più in bilico della recente storia repubblicana lo Stato ha pensato bene di liberare Giovanni Brusca, detto ‘u verru: oltre 100 delitti di mafia tra i più efferati, l’autore della strage di Capaci e, soprattutto, colui che ha fatto sequestrare e che ha tenuto chiuso per 779 giorni in un bunker senza aria né luce il tredicenne Giuseppe Di Matteo, figlio del rivale pentito. Ci giocava alla playstation Brusca con il piccolo Di Matteo, eppure non ha avuto pietà, ammazzate il cagnolino. E gli esecutori lo hanno soffocato, poi sciolto nell’acido e poi il giorno dopo sono andati a controllare. Pentito dicono, Giovanni Brusca si è pentito, ha scontato 25 anni di carcere duro ed ora è libero. “Non so cosa faccio se lo dovessi incontrare”, ha detto Santino Di Matteo, che vive protetto da una zona all’altra, che ancora gira per processi, mentre prima i carcerieri di suo figlio e ora Brusca sono tutti in libertà. Ha aggiunto: “Brusca è quello che ha strangolato una ragazza incinta e torturato il fidanzato, che non avevano fatto niente”.

Mezza Italia è esplosa. E quelli che non lo hanno fatto in modo eclatante altrettanto hanno disapprovato senza riserve. “Una schifezza, subito cambiare la legge”, ha esordito Matteo Salvini. “Vergogna per l’Italia intera”, ha dichiarato Giorgia Meloni. “Un pungo nello stomaco”, ha commentato Enrico Letta. Ma le reazioni più preoccupanti sono state quelle di cittadini delusi, come traditi e alcuni ovviamente hanno reagito, tirando fuori il peggio della vacillante democrazia: sedia elettrica, pena di morte, il campionario giustizialista che s’eleva ormai a ogni sentenza.

Ciò che mi ha colpito è stata l’impermeabilità del capo dello Stato, Sergio Mattarella, e del premier Mario Draghi, i quali non hanno fatto una piega. Anzi, nei discorsi ufficiali hanno garantito una ripresa e chiesto un’Italia unita e solidale. Domanda: potevano non sapere della scarcerazione di Brusca? Saranno stati colti di sorpresa? È intervenuta con ammirevole compostezza Maria Falcone, la sorella di Giovanni Falcone: “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Spero solo che magistratura e forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione”. Mentre la politica si è divisa sull’abolizione della legge sui pentiti, che però secondo alcuni farebbe fallire i grandi risultati ottenuti contro la lotta alla mafia, e mentre in una intervista a volto coperto, Giovanni Brusca ha recitato il pentimento, è salita dalle viscere del Paese, dai rivoli di sangue e dolore, dalle ingiustizie e dalle stragi la domanda squarciante: come si può perdonare?

Lo dico subito. Non capisco come si possa mettere sia l’opinione pubblica e soprattutto i le famiglie delle vittime di fronte a questa angoscia a questo modo. Col risultato che o si infrange la credibilità della giustizia o si alimenta un dolore mostruoso. Come si può chiedere di perdonare Brusca e quelli come lui. In nome di che? Cosa è il perdono?

Personalmente quando ho dovuto affrontare la questione ho studiato il libro di Ottavia Niccoli Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento” (Laterza), perché mi aveva colpito la premessa che mi aveva suggerito alcune ipotesi. Per “perdonare” si intende rinunciare alla vendetta, quindi alla faida, cancellare dentro di sé il rancore verso chi ha offeso, fargli anche del bene, se si è cristiani, pregare per lui. Però, giustamente, l’autrice cita subito la posizione di Simon Wiesenthal, il “cacciatori di nazisti”, che nel 1942 aveva incontrato un giovane Ss morente che gli aveva chiesto di perdonarlo e lui non lo aveva fatto. Ma era stato assalito da dubbi continui e quindi aveva posto la riflessione a tanti, tra cui a Primo Levi (“Il girasole. I limiti del perdono”, Garzanti). Perché il tema del perdono s’intreccia strettamente con la Shoah e con le grandi tragedie. Pensiamo ai Papi che hanno chiesto perdono per comportamenti gravemente peccaminosi della Chiesa, per il caso di Galileo, per i processi dell’Inquisizione, rivolgendo la richiesta al divino ma davanti agli uomini. E anche nella cronaca abbiamo esempi, come nel caso dell’omicidio del commissario Mario Calabresi in merito alla grazia a Ovidio Bompressi.

Allora, che vuol dire perdonare? Ne “I promessi sposi” abbiamo la visione del cristianesimo non elitario con venture gianseniste, per cui è “il cuore illuminato dalla fede”. Come spiega il commentatore manzoniano Ezio Raimondi “di colui che ha saputo apprendere la giustizia di Dio, che è giustizia del cuore libero e paziente”. Ma ricordo Simon Wiesenthal, perché ho avuto la fortuna di intervistarlo, e mi colpì il rigore ferreo del “cacciatore” ma il dilemma dell’uomo. Lui scrutava me per capire quale animo avessi verso l’Olocausto, io in lui cercavo quale animo avesse conservato. “Manca una spiegazione plausibile”, gli dissi. Capì benissimo e replicò: “Le colpe non devono ricadere su figli e famiglie”.

Come poi ha mostrato bene Margaret Mazzantini in “Venuto al mondo” (Mondadori). Per cui tutte quelle richieste di dolore e punizioni estese sono scempio. Alimentano faide, rancore, altra morte. Nessuna ragione, nessun diritto o pretesa. Allo stesso tempo, però, se assumiamo la nozione del figliol prodigo, occorre una espiazione che sia rivoluzione della caverna della coscienza, perché sul vero perdono conosciamo la sentenza biblica e la narrazione dantesca. Pena e gestione del fine pena, oltre che a collaborazioni e quant’altro, devono portare a una assoluta garanzia e a un traguardo: la non reiterazione del reato, la sicurezza per la società, per tutti. E in questo, ho avuto prove dirette, la nostra giurisprudenza, il sistema e lo Stato sono in difetto enorme. Adesso chi usa Brusca?

Aggiornato il 04 giugno 2021 alle ore 12:47