I compiti della scuola

Se si ponesse questo titolo sotto forma di domanda, la risposta ovvia sarebbe: spiegare, e poi interrogare, esaminare, dare i compiti. Eppure, non è così. Meglio: non è più solo così. La scuola è istituzione fondamentale della società. E cambia, come cambia la società. Ogni giorno media ed esperti rilevano la nuova complessità in cui si fatica a trovare punti di riferimento: e anche i compiti della scuola si sono diversificati e moltiplicati. Un avviso del Miur del 23 aprile 2017 riconosceva come la scuola dovesse fornire gli “strumenti cognitivi, emotivi e relazionali, idonei per fronteggiare il disorientamento derivato da quel flusso mutevole di conoscenze”. Perfetta indicazione. Ma come fare? Cosa fare?

Si può partire dall’affermazione di Carl Rogers: “La natura dell’uomo è rivelata nelle relazioni inter-personali”. Peccato che la parola “relazione” stia correndo il rischio di essere banalizzata in ciarlieri dibattiti. Per non farla diventare parola vuota, cominciamo a darle forma ricordando che la problematica relazionale rappresenta l’aspetto innovativo più clamoroso della attuale ricerca scientifica: è stata la neurobiologia ad aver spostato l’accento su come le connessioni cerebrali si modifichino grazie all’interazione con l’ambiente, con gli altri: tanto da poter parlare, con Daniel Siegel, di mente relazionale.

Da sempre l’insegnamento è un lavoro ad alto tasso di relazionalità, la cui gestione è stata per lo più lasciata alla buona volontà (o al buon carattere) del singolo docente: è ormai urgenza recuperare la dimensione relazionale nell’ottica di una professionalità articolata che abbia consapevolezza delle dinamiche relazionali, e di come non sia sufficiente una comunicazione “amicale” per garantire l’attenzione verso le persone in crescita e rispondere ai loro specifici bisogni. Perché la relazione diventi centro dell’azione didattica occorre avere gli strumenti idonei, delle competenze che non si possono improvvisare: bisognerà almeno essere formati sul processo che porta alla conquista dell’identità; sulle prime relazioni di attaccamento; sulla valutazione del potenziale emotivo in atto.

Il percorso del cucciolo dell’uomo verso la maturità è lungo. Chi insegna, in quanto educatore (educere, condurre fuori da) deve possedere una concezione dinamica della persona, con la consapevolezza di una possibile evoluzione continua, seppure con modalità e tempi diversi: insomma, deve avere, in quel cucciolo, fiducia. Ma deve anche essere consapevole delle maggiori difficoltà che oggi, in questo percorso, si incontrano: non possiamo qui fare una analisi sociologica, ma vorrà dire qualcosa il disagio mentale cresciuto a dismisura interessando, nelle sue varie forme (dai disturbi del sonno, agli attacchi di panico, ai disturbi alimentari, all’abuso di sostanze, alle psicosi) bambini, adolescenti, giovani.

Tornando alla didattica: la classe non è composta di attori neutrali ma di esseri emozionali. La complessità della vita emotiva si porta, dunque, in primo piano, sia che si parli di emozioni che vanno ad interferire con l’aspetto cognitivo sia sulle modalità comportamentali-relazionali. Le teorie sulle emozioni sviluppate in letteratura sono davvero tante (almeno novantadue definizioni del termine, ventiquattro teorie e trenta approcci diversi allo studio delle stesse), così da determinare perdurante confusione e incertezza attorno al concetto. Preziosa nella pratica didattica si è rivelata la teoria di Daniel Goleman: conosciuta come intelligenza emotiva, permette di portare attenzione alle strategie di autoregolazione comportamentale e al funzionamento cognitivo, oltre che alla qualità delle competenze affettive.

Quando penso all’analfabetismo affettivo-emotivo della scuola (di cui troppi parlano senza farne parte), penso all’incapacità dei più a gestire le complesse dinamiche della crescita; a gestire la fatica e la sofferenza emotiva che accompagna l’incontro con l’altro; a dare spazio alla persona in crescita: anche alla sua rabbia, o al suo vuoto, o alla sua paura. So per esperienza quanto possa essere dirompente la modalità di relazione con un alunno “difficile”: che non vuole studiare, che si stanca, che disturba, che si agita, che si isola. Bisognerebbe sapere perché. Oggi sappiamo che esiste una intelligenza emotiva; sappiamo che ogni mente individuale non è mai isolata, ma partecipa delle menti di altri; Anna Freud, Erik Erikson, Donald Winnicott (per citare solo i “maestri”) ci hanno insegnato anche che le nuove relazioni (tutte le relazioni) permettono una ristrutturazione cognitiva ed emotiva delle prime esperienze: nel doveroso riferimento a John Bowlby, proprio le relazioni “altre” possono addirittura modificare i modelli operativi dell’attaccamento negativo caregiver-bambino (insicuro-ambivalente; insicuro-evitante; disorganizzato). La relazione tra due soggettività che cooperano e che parlano la “lingua dell’affettività”, ha bisogno della comunicazione.

Inopportuna e inutile – lo si è accennato – risulta la comunicazione facilistica con cui l’adulto propina i suoi “non ti preoccupare”, “tutto passa”: tra le competenze dei docenti, ci dovrebbero essere sia le modalità con cui utilizzare i vari registri linguistici sia la conoscenza degli elementi comunicativi presenti nel linguaggio non verbale o para-verbale (i silenzi, la postura, i gesti, come vengono dette le parole, il cambio di argomenti). La comunicazione diventa, allora sì, un processo interattivo: quella che si può definire comunicazione “collaborativa” offre a chi cresce un’occasione per sentirsi ascoltato da un orecchio partecipe al suo disagio e accolto nella mente dell’adulto, senza essere giudicato né valutato per quello che dice; e per quello che non dice. Nel campo intersoggettivo che si viene a creare, chi cresce avverte un clima di fiducia e condivisione che gli permette di risperimentare le emozioni, di rielaborarle. Da questa trama relazionale emerge la individualità della persona. Ecco perché la didattica non può essere “a distanza”.

Aggiornato il 15 ottobre 2020 alle ore 12:57