Una risata non ci seppellirà

Sette secoli fa circa, un tale di nome Giovanni Boccaccio, ufficialmente scrittore agli albori dell’Umanesimo, ma molto, molto più di questo in realtà, ambientò la sua opera più famosa Il Decameron, durante la pestilenza che colpì Firenze in quel tempo e fece raccontare ai giovani e alle loro compagne novelle divertenti, satiriche, argute e licenziose, durante il loro buen retiro sulle colline intorno alla città. E allora dovremmo accusare ser Giovanni di aver offeso la memoria di tutti coloro che morirono di peste a Firenze, in quei giorni? Avrebbe il povero padre della letteratura e della novellistica italica speculato e dileggiato i caduti del nero morbo? Perché è proprio quanto sta accadendo da alcune ore in merito al nuovo film Lockdown all’italiana diretto dallo sceneggiatore Enrico Vanzina, al suo esordio dietro la macchina da presa. Perché tanta indignazione, perché tanto accanimento puritano, ipocritamente prono al più vieto politicamente corretto, perché non si dovrebbe ridere di quello che, sì certo ha provocato lutti, ma ancora dobbiamo capire in quale misura? È proprio dell’uomo ridere – leggetevelo Aristotele ogni tanto – ed è proprio dell’uomo esorcizzare la morte con il riso e con la musica, con il divertimento e con la gioia. Perché così si combatte la morte: ridendole in faccia.

E uno come William Shakespeare, che di tragedie e di morti se ne intendeva, sapeva benissimo come ridere e irridere proprio la fine della vita umana. Sì perché tragedia e farsa, morte e vita, vanno da sempre mano nella mano. Allora non si sarebbe mai dovuto ridere delle cose tristi come facevano i giullari, come faceva François Villon nei suoi versi, come scriveva di certo sghignazzando François Rabelais. No, per carità tutti tristi e seri, anzi peggio, seriosi, cupi e piangenti dovremmo stare secondo i nuovi dettami di questo atteggiamento che odora di protestantesimo luterano. Eppure la vita va avanti, procede e vince sempre sopravanzando su ogni morte, che sì va rispettata ma proprio perché degna di tale considerazione va accolta con uno sberleffo. Chi sta criticando – peraltro senza neanche averlo visto – il film di Vanzina, ignora forse l’esistenza di una forma di umorismo particolarmente cara, per esempio al mondo anglosassone – ma non ignota neanche a noi latini – che appunto ride, irriverente, proprio sulle tragedie della vita e che, non a caso memore di reminiscenze colte, si chiama “umor nero” ovvero Black Humor. Non si può ridere in un funerale? E chi l’ha detto? Evidentemente chi lo pensa non conosce l’usanza della “veglia irlandese” durante la quale si ride, si scherza, si beve e si raccontano storie e aneddoti divertenti sulla vita del defunto. Perché chi non ride è già morto in vita. O forse c’è chi non ha riso sulla tragedia della follia della guerra con il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick?

Non ha riso dell’imbarazzante comportamento di Hrundy V. Bakshi in Hollywood Party di Blake Edwards?? Nessuno ha riso in M.A.S.H. di Robert Altman, pensando ai numerosi morti della Guerra di Corea? Tutti seri, immagino, alla morte del cavallo in Animal House di John Landis. È proprio degli eventi più tristi che invece si deve cercare di ridere, ricacciandoli nella profonda notte, combattendo così la paura con una delle armi più potenti date all’essere umano, la capacità di distruggerla con il suono della propria risata. Così io – e con me altri, folli o saggi non saprei – continuo a ridere di cose che sono “tragiche ma non serie” e vi prego, se ci riuscite, fatelo anche voi, anche al mio funerale, se ci sarete e quando ci sarà, non voglio pianti, ma raccontate quante cose divertenti, demenziali, assurde, io abbia fatto e ridete, ridete perché come scrive William Butler Yeats ne Il violinista di Dooney: “Sempre allegri sono i buoni, salvo che nella cattiva sorte e la gente allegra ama il violino, la gente allegra ama danzare”.

Aggiornato il 21 settembre 2020 alle ore 10:59