Le leggi si rispettano, lo sanno anche i bambini. Ma se si ritengono inique, è lecito violarle? Molti risponderebbero: mai, sarebbe troppo facile, ognuno si sentirebbe in diritto di non osservarle e sarebbe il caos. E così, per stare all’attualità: il lockdown subìto dagli Italiani, dicono alcuni, è sì avvertito come limitante; “ma che ci vuoi fare, è la legge”. Non è affatto così semplice (per fortuna). Quando si ritenga che una legge leda manifestamente i propri diritti inviolabili, esiste la possibilità della disobbedienza civile, in applicazione del cosiddetto diritto di resistenza. Sgomberiamo subito il campo da possibili equivoci: esiste una correlazione logica tra rivoluzione e diritto di resistenza, perché in entrambi i casi c’è la volontà di violare la legge, ma i concetti non vanno confusi, perché in realtà sono di significato opposto. In un sistema democratico, la rivoluzione è eversiva, perché mira a rovesciare il sistema esistente, mentre la resistenza è conservativa, verificando una espressione di fedeltà del cittadino ad un sistema che tutela un suo diritto minacciato dall’arbitrio dell’autorità.
La prima manifestazione del principio per cui è ammissibile non rispettare le leggi, quando esse vanno contro la coscienza e i diritti umani, viene fatta risalire alla Grecia del V secolo a.C., quando Sofocle scrive la sua tragedia Antigone. L’opera ruota intorno all’avvenuta sepoltura in segreto di Polinice – avversario politico del Re Creonte – dentro le mura di Tebe, nonostante un decreto regio gli avesse negato, a pena di morte del seppellitore, una degna inumazione. La sorella Antigone, autrice del fatto, viene scoperta e portata al cospetto di Creonte. Accusata del delitto, si difende non negando di essere a conoscenza del divieto, ma appellandosi a un diritto superiore: “a proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dice, fissò mai leggi simili tra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dei. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero, né di dove. E a violarle non poteva indurmi la paura di nessuno fra gli uomini, per poi renderne conto agli dei. Sarei morta: lo sapevo anche senza il tuo bando.”. In nome, dunque, di questo diritto naturale, di origine divina, Antigone compie il primo atto di consapevole disobbedienza civile alla legge conosciuto.
Il conflitto tra il diritto positivo (norme poste, ossia scritte, dagli uomini) e il diritto naturale si è da allora spesso riproposto nella Storia e ha impegnato nei secoli molti studiosi. Un passaggio cruciale si ebbe nella Magna Charta Libertatum redatta dall’Arcivescovo di Canterbury e accettata il 12 giugno 1215 dal Re d’Inghilterra Giovanni “Senza Terra” per raggiungere la pace con un gruppo di nobili ribelli. Il documento prevedeva una serie di garanzie, tra cui la protezione dei civili dalla detenzione ingiustificata e una rapida giustizia. Il pensiero costituzionale inglese, che si è rivelato la fonte primaria del diritto di resistenza (anche se parallelamente, pure S. Tommaso d’Aquino in Italia e la Scuola di Salamanca in Spagna elaboravano tesi originali in tema) si sviluppò intorno a quel testo e alle sue integrazioni e interpretazioni susseguitesi nel tempo, passando anzitutto per l’Habeas Corpus Act, emanato il 27 maggio 1679 da Carlo III d’Inghilterra, che codificava l’emissione del writ (ordinanza) mediante la quale una Corte reale poteva ordinare a qualsiasi altra giurisdizione la consegna del prigioniero garantendolo dall’arbitrio signorile. Ancora oggi, nel sistema anglosassone, l’Habeas corpus è il diritto di richiedere a un giudice l’emissione di un ordine, diretto a un’autorità pubblica che ha eseguito un arresto, per rendere ragione della detenzione di quella persona, ed è considerato uno dei principali presidi di salvaguardia della libertà individuale contro le detenzioni arbitrarie.
L’ulteriore passaggio fu il Bill of Rights della gloriosa Rivoluzione inglese del 1688-89, emanato al termine di cinquant’anni di lotte tra Corona e Comuni, che influenzò poi tutte le Costituzioni liberali occidentali, oltre che – ovviamente – quella americana. Il diritto di resistenza trovò quindi riconoscimento all’interno della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 5 luglio 1776: “Noi riteniamo che tutti gli uomini sono stati creati tutti uguali, che il Creatore ha fatto loro dono di determinati inalienabili diritti che ogni qualvolta una determinata forma di governo giunga a negare tali fini, sia diritto del popolo il modificarla o l’abolirla, istituendo un nuovo governo che ponga le basi su questi principi. Allorché una lunga serie di abusi e di torti tradisce il disegno di ridurre l’umanità ad uno stato di completa sottomissione, diviene allora suo dovere, oltre che suo diritto, rovesciare un tale governo”.
Fonte a cui si ispirò anche l’articolo 2 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 della Francia rivoluzionaria, che stabiliva: “Lo scopo di ogni società è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà e la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”. Anche da noi alla fine del Settecento, sulla scia delle rivoluzioni americana e francese si studiò la questione. Gaetano Filangieri – amico e ispiratore di Benjamin Franklin, tra i padri della Costituzione americana – ne La Scienza della Legislazione (1780-85) osservò che “non tutte le azioni contrarie alle leggi sono delitti, non tutti quelli che le commettono sono delinquenti. L’azione disgiunta dalla volontà non è imputabile; la volontà disgiunta dall’azione non è punibile. Il delitto consiste dunque nella violazione della legge accompagnata dalla volontà di violarla”.
Il presbitero siciliano Nicola Spedalieri, nel Dei diritti dell’uomo (1791) si rifece al concetto di resistenza elaborato durante la rivoluzione francese, alla luce delle teorie di San Tommaso. Ma lo riferiva al “corpo della Nazione”, non ai singoli cittadini. Fu però Francesco Mario Pagano, nella Costituzione della Repubblica partenopea del 1799, a sviluppare il concetto di diritto di resistenza nel modo più originale, in tre direzioni:
- il diritto dell’uomo contro chi impedisce l’esercizio delle facoltà individuali;
- il diritto individuale del cittadino contro la tirannide;
- il diritto del popolo come argine contro gli abusi perpetrati dal potere costituito.
L’originalità del suo pensiero si tradusse anche nella previsione nella Costituzione dell’Eforato, una sorta di Corte costituzionale ante litteram. A metà dell’Ottocento in Usa, l’argomento fu trattato in modo organico in una monografia di Henry David Thoreau, La disobbedienza civile (“Non vi sarà mai uno Stato realmente libero ed illuminato, finché non giunga a riconoscere l’individuo come un potere più elevato ed indipendente, dal quale derivino tutto il suo potere e la sua autorità, e finché esso non lo tratti di conseguenza”). A lui si ispirarono successivamente Gandhi, che con la non violenza portò l’India all’indipendenza, e Martin Luther King.
Nel secondo dopoguerra, sulla scia del Processo di Norimberga e del rinnovato interesse per il riconoscimento del diritto naturale, il principio della disobbedienza civile trovò spazio in alcune Costituzioni. Ad esempio, nella Costituzione della Repubblica Federale Tedesca, all’articolo 20, 4° comma, si affermò: “Tutti i tedeschi hanno diritto alla resistenza contro chiunque intraprenda a rimuovere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio”. Anche in varie Costituzioni dei Laender venne formalizzato un diritto di resistenza. Della disobbedienza civile parlava anche la Costituzione francese del 19 aprile 1946 (che poi però non fu approvata), all’articolo 21: “Qualora il governo violi la libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza sotto ogni forma è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri”. Ma veniamo a noi oggi: nella Costituzione o comunque nell’ordinamento giuridico italiano c’è una norma specifica sul diritto di resistenza? Nella Costituzione, onestamente, no. Il che non vuol dire che la questione si chiuda qui: il principio potrebbe essere desumibile da qualche altra norma della Carta fondamentale, anche alla luce dei lavori preparatori, o dell’ordinamento.
Vediamo anzitutto perché la Costituzione non preveda espressamente il diritto di resistenza. Non certo perché non se ne parlò: all’Assemblea Costituente, il dibattito sulla questione, posta espressamente, durò circa un anno e fu particolarmente vivo. Deve rilevarsi anzitutto come la netta differenza tra i concetti di rivoluzione e di disobbedienza civile, vista sopra, all’epoca non fosse ben presente a tutti i costituenti, ma solo ai giuristi più lucidi. La maggior parte dei delegati, infatti, si rifaceva all’atto eversivo, di cui Vittorio Emanuele Orlando, nel suo Diritto pubblico generale del 1940, aveva così parlato: “ogni rivoluzione comporta inizialmente uno stato di fatto ed anzi di violenza, poiché in via antigiuridica (tale deve dirsi in rapporto allo stato preesistente) assale e distrugge il diritto vigente e ne sostituisce un altro. Vi è dunque un momento logico di non-diritto, in quanto, mentre il vecchio diritto viene meno, il nuovo non si è ancora instaurato; e al momento logico corrisponde, poi, un effettivo periodo cronologico di profondo turbamento e sconvolgimento, per cui la vita del diritto è come sospesa”.
Giuseppe Dossetti, forse perché unico tra i professori democristiani costituenti ad essere stato partigiano attivo (gli altri erano Giuseppe Lazzati Amintore Fanfani Giorgio La Pira e Aldo Moro), avanzò la sua proposta in prima sottocommissione ispirandosi invece alla Costituzione francese del 1946: “La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che vìolino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino”. Concetto Marchesi osservò criticamente che “un’insurrezione contro i poteri dello Stato non avrebbe bisogno di appellarsi ad un articolo della Costituzione”. Aldo Moro, inquadrando correttamente la questione, osservò invece: “si precisa come al singolo, o alla collettività, spetti la resistenza contro lo Stato, se esso, avvalendosi della sua veste di sovranità, tenta di menomare i diritti sanciti dalla Costituzione e dalle leggi”.
Carmelo Caristia fraintese tra rivoluzione e resistenza, e si dichiarò contrario, sostenendo che “il diritto alla resistenza corrisponde ad un movimento chiamato rivoluzione, che quando fosse riuscito ad affermarsi, non avrebbe alcun bisogno di appellarsi ad un articolo della Costituzione”. Altri paventarono il rischio che una tale disposizione potesse divenire oggetto di abuso da parte del cittadino. Ma Umberto Tupini dichiarò che “Il pericolo che il cittadino abusi di quest’arma, che la Costituzione gli pone nelle mani, in Italia non vi sarà; perché, in ultima istanza, sarà sempre il giudice a decidere se il singolo ha fatto buon uso del suo potere ed ogni ordinamento giuridico trova la sua messa a punto nell’opera costante della giurisprudenza”.
Palmiro Togliatti, anche lui fraintendendo il concetto, si mostrò disposto ad accettare l’articolo, pur annettendo poca importanza alla giustificazione legale, poiché “ciò che legittima una rivoluzione è la sua vittoria”; esprimendo però perplessità per la strumentalizzabilità del concetto per fini meno nobili e assai più banali di quelli di difesa da un oppressione politica, come “ad esempio nel caso di uno sciopero fiscale di fronte a nuove tasse”. Mario Cevolotto osservò che “è anche un dovere, specialmente nei riguardi di alcune categorie di cittadini, come per esempio i pubblici ufficiali che devono avere il dovere di opporsi a un ordine del superiore che sia contrario alle norme della Costituzione”. Comunque, la prima sottocommissione approvò a grande maggioranza l’articolo, e dopo il passaggio nel Comitato di redazione (o dei 18) il testo sulla resistenza entrò – leggermente modificato – come secondo comma dell’articolo 50, nel progetto di Costituzione. Rispetto all’ originale di Dossetti, infatti, il testo apparve già notevolmente più debole: “Quando i poteri pubblici vìolino le libertà fondamentali e di diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Resistere ad “atti” che violino la Costituzione, è ben diverso che resistere “all’oppressione”, concetto troppo generico.
A questo punto, però, le cose presero una piega imprevista. Probabilmente anche per beghe interne alla DC, ma soprattutto nel timore di riconoscere il diritto di rivoluzione e quindi di aprire la via a una strumentalizzazione comunista e separatista di questa norma. La proposta di Dossetti venne attaccata dagli altri leader democristiani, in particolare Fiorentino Sullo (ispirato probabilmente da Mortati): “un autorevole costituzionalista della commissione dei 75 mi ha detto che attribuiva a questo articolo un valore pedagogico. Non capisco come la Costituzione possa fare pedagogia. La pedagogia non è politica”. Costantino Mortati stesso, dapprima favorevole, presentò un emendamento: “È diritto e dovere dei cittadini, singoli o associati, la resistenza che si renda necessaria a reprimere la violazione dei diritti individuali e delle libertà democratiche da parte delle pubbliche autorità”.
Rossi si dichiarò contrario perché la pretesa di disciplinare legalmente l’insurrezione era infantile. “Si potrebbe correre persino il rischio di essere arrestati sia perché si resiste sia perché non si resiste”. Non possiamo riportare qui tutti gli interventi assembleari sul tema; ma uno ancora sì, per smontare il mito del particolare rigore argomentativo dei costituenti. Francesco Colitto (Uomo Qualunque) affermò infatti che “qualunque sia il motivo da cui un cittadino possa essere indotto a disobbedire alla legge legittimamente emanata, quel cittadino deve essere sempre considerato un ribelle e trattato come tale” giungendo alla conclusione che il diritto di resistenza come tale non esiste. Una dichiarazione di livello logico non certo trascendentale. Sta di fatto che, quando si votò il testo dell’attuale articolo 54 (che intanto aveva sostituito l’articolo 50 del Progetto), il diritto di resistenza fu soppresso, nonostante il voto favorevole dei comunisti, dei socialisti e degli autonomisti, finendo assorbito nel principio di fedeltà. Mortati ne firmò infine l’epitaffio: “Non è al principio che noi ci opponiamo, ma alla inserzione nella Costituzione di esso e ciò perché a nostro avviso il principio stesso riveste carattere metagiuridico, e mancano, nel congegno costituzionale, i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima. Siamo condotti con questa disposizione sul terreno del fatto, e pertanto su un campo estraneo alla regolamentazione giuridica. Si è detto che questo articolo potrebbe avere un valore educativo, e questo è vero. Ma bisogna allora stabilire se la Costituzione debba essere un testo di legge positiva, oppure un trattato pedagogico”.
Così, l’ardita proposta di Dossetti, apprezzata da molti altri illustri costituenti, non trovò seguito nella Costituzione, che partorì la norma un po’ retorica del dovere di fedeltà di cui all’articolo 54. Un’occasione persa. Molto probabilmente sull’esito del voto influirono, oltre le motivazioni di opportunità politica, anche una certa confusione di interpretazione tra il concetto di resistenza e quello di rivoluzione, come sopra ricordato. Negli anni Settanta Mortati ebbe un ripensamento tardivo, ritenendo che il diritto di resistenza trovi la sua fonte costituzionale non “nella sovranità popolare, ma nei diritti inviolabili”.
Dunque, se è vero che non esiste una norma specifica, il diritto di resistenza può ricavarsi dalle ratio di molte norme costituzionali (es. articoli 1,2,3 e 54) perché esprime il principio di sovranità popolare, garantisce la tutela dei diritti inviolabili ed è espressione del dovere di fedeltà alla Repubblica e non di obbedienza alle leggi dello Stato: il dovere di fedeltà alla Costituzione, sancito dall’articolo 54, comporta il dovere di non obbedire alle leggi che sono in contrasto con essa. Questo principio trova conforto anche in altre norme dell’ordinamento. Ad es. nel Codice penale, l’articolo 51 esclude la punibilità dei fatti compiuti “nell’esercizio di un diritto” o “nell’adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità”; e l’articolo 650 legittima la disobbedienza contro provvedimenti “non legalmente dati” dall’Autorità, ossia arbitrari.
Per i militari, inoltre, l’articolo 4 della legge 11-07-1978 n° 382 ha previsto il dovere di disobbedire all’ordine manifestamente illegittimo: “Il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare al più presto i superiori”. In conclusione: non si deve confondere il dovere di fedeltà alla Repubblica (e alla sua Costituzione) con quello di obbedienza delle leggi dello Stato. Sono infatti concetti diversi e in caso di conflitto apparente, prevale la fedeltà. Quindi l’ordinamento giuridico italiano riconosce il valore della disobbedienza civile. Che, di regola, è non violento e passivo, ossia appunto una resistenza. Ma non è detto; poiché, a seconda dei casi, potrebbe porsi il problema di intervenire attivamente, in extrema ratio anche con l’uso della violenza, per impedire conseguenze irreparabili; e non sarebbe difficile, in tale ipotesi, invocare – a seconda dei casi – le scriminanti previste dal codice penale: legittima difesa, stato di necessità, esercizio del diritto, adempimento del dovere.
Aggiornato il 06 maggio 2020 alle ore 11:29