La passione dei keynesiani per la guerra

Che gli eurolirici abbiano deciso di indossare l’elmetto per diventare gli aedi della propaganda bellicista, è cosa risaputa. Forse, però, gli osservatori meno attenti non saranno riusciti a cogliere i motivi che si nascondono dietro a questa improbabile metamorfosi. Cambiano le parole d’ordine, ma la strategia rimane sempre uguale: il Leviatano a guida franco-tedesca può sopravvivere solo in funzione di un perenne stato d’emergenza che ne giustifichi lo strapotere. Così, dopo l’allarmismo climatico del Green New Deal e la sventurata profezia “non ti vaccini, ti ammali e muori”, l’Unione europea aggiunge alla sua lunga serie di perversioni l’innamoramento per le tesi di John Maynard Keynes.

L’economista di Cambridge ha offerto un’implicita legittimazione alla guerra, ritenendo che persino le circostanze più tragiche e sanguinose potessero favorire l’incremento del benessere. Allo stesso modo, i vertici di Bruxelles perseverano nell’errata convinzione che i conflitti promuovano lo sviluppo e diano impulso alla prosperità, come se i cannoni, le mitragliatrici o i carri armati si trasformassero all’improvviso in surrogati delle infrastrutture. Ma la riflessione keynesiana presenta un equivoco di fondo: trascura il lato dell’offerta (costituito dalle famiglie e dalle imprese, nonché dai rispettivi risparmi) e pone un accento esclusivo sulla domanda. La crescita economica, dunque, non dipenderebbe dalla parsimonia con cui le famiglie accumulano denaro, ma dall’investimento di ingenti capitali attraverso i consumi.

Keynes riconosceva che, durante i periodi di crisi, le politiche tese al riarmo potessero fungere da stimolo alla domanda aggregata, creando occupazione e mobilitando le risorse produttive. In buona sostanza, il profeta dell’interventismo era del parere che la spesa pubblica diretta a scopi bellici fosse la sine qua non per rilanciare un’economia in stagnazione. La portata distruttiva di questo pensiero emerge in un discorso radiofonico del 23 maggio 1939, allorché Keynes spiegava che le misure intraprese nel corso di un conflitto fossero perfettamente applicabili anche in tempo di pace: “Il Grande Esperimento è iniziato. Se funziona, se le spese per gli armamenti cureranno realmente la disoccupazione, prevedo che non potremo mai tornare indietro alle vecchie abitudini. Il bene può venire dal male. Se siamo in grado di curare la disoccupazione per lo spreco rappresentato dagli armamenti, possiamo curarla per i fini produttivi della pace”. Quello stesso giorno Adolf Hitler convocò un consiglio segreto per annunciare ai suoi generali il piano di invasione della Polonia.

Le osservazioni di Keynes corrispondono all’attuale linea politica dell’Ue. Per questa ragione, non dobbiamo sottovalutare le dichiarazioni sconcertanti di alcune tra le principali figure dell’establishment, che guardano con favore alla prospettiva di un nuovo coinvolgimento militare. Già lo scorso novembre Valerio De Molli, amministratore delegato di The European House – Ambrosetti, aveva affermato che le guerre rappresentano “dei fattori di crescita economica, perché promuovono un incremento delle produzioni manifatturiere”. A margine della conferenza stampa sulla presentazione del mercato unico dei capitali, la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha farneticato a proposito della “trasformazione dei risparmi improduttivi in investimenti necessari”. Tutto questo lascia presagire l’ennesima violazione dei diritti di proprietà da parte di una leadership tecnocratica non eletta che ha, come unico obiettivo, la distruzione del continente europeo. Con l’approvazione postuma di Keynes, s’intende: “Nel lungo periodo, saremo tutti morti”.

Aggiornato il 28 marzo 2025 alle ore 17:14