Allarme, son fascisti!

L’altro ieri il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è permessa di criticare il Manifesto di Ventotene. La sua frase incriminata, pronunciata alla Camera dei deputati, è stata: “Non so se questa è la vostra Europa, ma certamente non è la mia”. Il putiferio che si è scatenato ha costretto il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, a sospendere i lavori, che sono poi ripresi dopo ben quattro ore.

Stessa bagarre che si è vista ieri in Senato dove la senatrice Raffaella Paita di Italia Viva ha dichiarato: “Quello che è accaduto è grave per la democrazia e per l’Europa”. E, non paga, ha aggiunto: “Estrapolare dal contesto le parole di persone al confino, di eroi, sia quanto di più grave, vergognoso e disumano si sia visto negli ultimi anni, in un momento cruciale per la vita del Paese” concludendo che Meloni “disonora il nostro Paese e non rende giustizia alla storia dell’Europa, alla resistenza, all’antifascismo. È una pagina brutta che testimonia qualcosa di recondito nella storia della destra”.

Il senatore Lucio Malan, sempre ieri in Senato, ha sottolineato come “citare le parole testuali di Spinelli, Rossi e Colorni suscita l’ira di alcuni che dicono di sostenerli. Questo dovrebbe suscitare delle domande in voi. Sappiamo bene il contesto, di persone ingiustamente messe al confino. Questo non vuol dire che tutte le loro idee debbano essere accettate”.

Troppo buon senso. Se la sinistra smette di gridare all’allarme fascismo ci si ritrova nella piazza romana della scorsa settimana dove nessuno dei presenti aveva davvero idea di quale tipo di Europa si voleva sostenere.

Meloni, avendo toccato i “mostri sacri”, forse non si è resa conto di aver sfidato il gotha su un punto cruciale. O forse ne era talmente tanto consapevole da averlo fatto intenzionalmente. Non lo sappiamo e, tutto sommato, il punto non è questo.

La questione riguarda l’idea di Europa che noi cittadini di nazioni singole, ma appartenenti al continente europeo, vogliamo portare avanti.

I “padri nobili” dell’Europa, ovvero Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi (fratello di Carlo, fondatore del socialismo liberale), con il contributo di Eugenio Colorni, nel Manifesto di Ventotene redatto nel giugno del 1941, parlavano espressamente di “dittatura rivoluzionaria” e di “abolizione della proprietà privata”. Fu scritto dai tre ben 84 anni fa, mentre si trovavano sull’isola di Ventotene, non in vacanza ma mandati al confino, con l’accusa di avere cospirato contro la dittatura fascista (siamo in piena Seconda guerra mondiale).

Nel loro ipotizzare che l’unica maniera per uscire dalla tragedia della dittatura nazista hitleriana fosse una “dittatura rivoluzionaria” di certo non immaginavano che poco meno di un secolo dopo sarebbero state applicate le stessa categorie di pensiero che vorrebbero imporci oggi. Anche perché loro stessi, a distanza di poco tempo, rivalutarono alcune delle loro idee.

Aborrivano lo spirito nazionalistico, in un momento storico che il determinato vocabolo sottintendeva dittatura e quindi antidemocrazia, però parlavano di “federazione europea”: dotata di proprie forze militari e sprovvista di barriere economiche protezioniste, con una rappresentanza diretta dei cittadini negli organi centrali, munita dei mezzi sufficienti per instaurare un “ordine comune”, pur lasciando ai diversi popoli larghi spazi di autonomia.

Da “bravi” socialisti, poi, aborrivano la proprietà privata. Auspicavano, infatti che venisse “abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso e non dogmaticamente in linea di principio”.

Da liberali e liberisti ovviamente dissentiamo con forza. Questo non vuol dire non riconoscere il valore simbolico del Manifesto di Ventotene. Concordi o meno.

Gli autori, comunque, non erano comunisti. Spinelli divenne un ex comunista perché espulso dal partito per aver criticato i processi farsa del Terrore staliniano. Insieme a Rossi bocciarono convintamente la prospettiva comunista, poiché sarebbe stata propensa a degenerare in “un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”. Se volessimo spingerci oltre con qualche illazione, potremmo perfino sostenere che sarebbero i primi a criticare l’attuale assetto dell’Unione europea.

Il punto focale, quindi, è: cosa c’è di male a pensare oggi a quale Europa vogliamo, alla sua essenza, ai suoi valori, basandoci sui parametri odierni e non quelli di 84 anni fa? Cosa c’è di sbagliato nel fare delle critiche volte al superamento di un concetto ormai passato, nel tentativo di continuare un percorso costruttivo propenso verso il futuro?

Perché con questa storia della “lesa maestà” non si fa altro che continuare ad impantanare il Paese in un discorso sterile: guardando al dito e non alla luna non solo il paese, ma il nostro intero continente, continua ad andare a picco.

La politica ha bisogno di vivere nel presente, non nel passato. E ha bisogno di accettare autocritiche, anche amare, per amore di se stessa e di tutti i cittadini.

Tutte cose che la maggior parte dei politici, oggi, non hanno intenzione di fare perché troppo impegnative. Meglio perdere tempo con sterili polemiche. Poi non domandiamoci perché continuano a perdere autorevolezza agli occhi degli elettori.

Aggiornato il 21 marzo 2025 alle ore 10:45