Nasce “Libertà è Democrazia”, ne parla Giancarlo Affatato

Sabato scorso, 15 marzo, Roma ha visto concentrarsi eventi che hanno letteralmente paralizzato la città. Strade e piazze così gremite non le si vedeva dal Giubileo del 2000 o dal 2 aprile 2005, quando milioni di fedeli si riversavano a Roma per la dipartita di Papa Giovanni Paolo II. In tutto quel marasma, circa quattrocento cittadini hanno raggiunto l’Hotel Massimo D’Azeglio e riempito i saloni: appuntamento organizzato dall’architetto Giancarlo Affatato, che ha tenuto a battesimo la nascita di “Libertà è Democrazia”, partito certamente d’ispirazione cattolica. I lavori sono stati coordinati dal giornalista Aldo Grandi, e sono intervenuti tantissimi esponenti della politica e dell’impresa, tra cui i senatori Luigi Vitali e Vincenzo D’Anna, nonché il giurista Mario Ferrante. L’architetto Affatato ha riassunto il suo pensiero a L’Opinione, non lesinando critiche e consigli a sistema politico e società italiana.

Libertà è democrazia…non le sembra di promettere troppo? Che certe promesse si potevano fare ottant’anni fa e che ora la gente si sia troppo allontanata dal confronto politico?

Guardi che la necessità di libertà è bisogno imprescindibile per la società moderna, quella in cui sono nati i partiti: associazioni che uniscono, su un progetto politico, intere comunità. I partiti che funzionano ed attraggono elettori, iscritti, simpatizzanti poggiano il loro successo su una antica ricetta, la partecipazione di gran parte del corpo sociale di una nazione. Non possiamo dimenticare che secondo la nostra Costituzione un partito politico è una libera associazione di cittadini, che hanno diritto di mettersi insieme, di contarsi, al fine di determinare democraticamente la vita politica italiana. La democrazia è partecipazione, e circa trentatre anni fa in questo paese si sono estinti i partiti tradizionali, sono spuntate associazioni chiuse alla partecipazione ma che candidavano gente in assemblee e parlamenti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, metà degli aventi diritto diserta le urne, non partecipa.

Perché la gente non partecipa?

Perché chi viene candidato e poi eletto non risponde alle esigenze di una ben precisa comunità, ma esclusivamente ai bisogni del gruppo di potere che lo ha messo in politica: casomai prendendolo dalla società civile e catapultandolo direttamente in Parlamento, senza una formazione, senza un percorso associativo, senza quella gavetta che un tempo partiva dalle sezioni e faceva gradualmente crescere gli impegni e le responsabilità di quelli che chiamavamo politici di professione. Il massimo della deresponsabilizzazione l’abbiamo conosciuta con l’uno vale uno, il grillismo, i girotondi, il popolo viola ed arcobaleno…Il risultato è stato evidente a tutti sotto il Governo Conte. Parlamentari che proponevano banchi a rotelle, progetti di “povertà sostenibile”, utopie come curare l’ambiente fermando l’economia e promuovendo la decrescita felice. Qualcuno ha creduto loro come Pinocchio a Lucignolo nel Paese dei Balocchi, salvo poi ricredersi per come è aumentata la povertà e, soprattutto, la fuga di aziende italiane. Oggi la gente ha necessità di azioni concrete, e rimpiange chi assumeva i precari nei consorzi di bonifica rispetto a chi ha elargito in maniera confusa un effimero reddito di cittadinanza.

Lo sa che i precari nei consorzi di bonifica li assumevano i democristiani?

Arruolare precari e avventizi che poi diventavano a tempo indeterminato, e venivano assunti, era usanza antica. Dall’unità d’Italia fino a qualche decennio fa, milioni d’italiani sono stati così inseriti nel mondo del lavoro, con il loro salario hanno cresciuto famiglie, garantendo studi e stabilità ad almeno un paio di generazioni. Lungi da me rifare la Diccì, ma credo necessiti fare tesoro di esperienze e progetti della tradizione politica italiana. Quella tradizione che dal 1950 al 1960 ha garantito una pacificazione nazionale ed un boom economico.

Lei con chi sta?

Io credo nella terza via italiana. Perché i nostri problemi non possono risolverli né Trump né Putin e nemmeno la von der Leyen. Io credo necessiti votare per il partito degli italiani, associazione tra persone accomunate da una medesima visione, identità, linea o finalità politica di interesse pubblico: ovvero gente che abbia a cuore la visione italiana su questioni fondamentali come la gestione dello Stato e della società del Belpaese.

Visione e identità italiana diversa da quella tedesca ed olandese?

Certo! Io credo nell’Europa dei popoli, ma non nell’omologazione culturale europea. L’identità italiana è unica e geniale, e non è paragonabile ad altre od omologabile. Il cardine dell’identità italiana rimane, anche per i laici e pure per gli atei, la tradizione e la cultura cristiana e cattolica: atei e laici non vorrebbero ammetterlo, ma sotto sotto lo sanno bene. Benedetto Croce sosteneva che noi italiani comunque non possiamo non dirci cristiani: questo è il cardine della filosofia idealistica italiana. Noi abbiamo una visione diversa dai protestanti, la mentalità calvinista non ci appartiene…l’italiano aggiunge un posto a tavola.

Si può ancora parlare d’identità cristiana in politica? Pensa questo messaggio venga recepito?

Ne sono convintissimo. Sabato su questi argomenti ho portato a confrontarsi professori di dottrine filosofiche, politiche e giuristi. Ben due sale del Massimo d’Azeglio ospitavano centinaia di persone. Questa identità fece sì che Alcide de Gasperi fosse legato per amicizia ed ideali a Benedetto Croce. Nel dopoguerra, nel solco dell’identità e tradizione cristiana, trova attuazione politica e pratica la Dottrina sociale della Chiesa. Quindi lo Stato ed i privati creavano lavoro e opportunità nella certezza che si migliorava la qualità della vita dei cittadini. I capitani d’industria al pari dei boiardi di Stato hanno traghettato l’Italia fuori dalla povertà creando redditi, salari, stipendi, ed aumentando la base imponibile per il fisco come i risparmi a disposizione delle banche. Voglio farvi un esempio che vale nel tempo per tutti: Adriano Olivetti spiegava di ispirarsi alla Dottrina sociale della Chiesa quando sosteneva che le grandi trasformazioni del mondo del lavoro possono essere orientate verso l’autentico progresso dell’uomo e della società quando guidate ed animate da una cultura del lavoro personalista, solidarista ed aperta al Trascendente; così i seguaci di Olivetti ci hanno spiegato il miracolo economico italiano. Certo, il rapporto tra Chiesa e politica era in quei tempi assai diverso. Ma rimane il solco, la filosofia, ovvero dobbiamo politicamente fare che il lavoro non sia strumento di alienazione, ma di speranza di vita nuova. Cioè, come dice la Dottrina sociale, che il lavoro sia libero e creativo. Perché ogni uomo porta in sé una originale e unica capacità di trarre da sé e dalle persone che lavorano con lui il bene divino che ha nel cuore. Il bene, e non certo la conflittualità, l’odio sociale, la contrapposizione continua. Solo la rappacificazione nazionale ci può salvare.

In poche parole, qual è la sua ricetta?

Ricostruire con atti concreti la cultura italiana del lavoro. Rimettere in azione la partecipazione politica dei cittadini. Rivitalizzare un sistema bancario popolare e contiguo alla piccola impresa ed al normale cittadino. Non permettere che aziende artigianali e contadine chiudano per una oppressiva interpretazione delle normative europee. Soprattutto costruire una politica che torni ad ascoltare, anche a costo di aprire nuovamente presidi sul territorio. Oggi, voglio ricordarlo, le parrocchie sono l’unico presidio che ascolta e dà voce alle periferie. A me consta che i sindaci di capoluoghi come Roma e Milano evitino come la peste le aree periferiche devastate da un degrado umano endemico, e la sola sicurezza non basta a frenare la cancrena sociale. Necessita riportare al centro l’occupazione lavorativa: in Italia ci sono 34milioni di inattivi… un dato allarmante, ed io suono la sveglia alla politica.

Aggiornato il 17 marzo 2025 alle ore 17:02