Sulla pericolosità della Corte penale internazionale

Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Krusciov”. Con queste parole Concetto Marchesi, latinista, deputato e membro del comitato centrale del Pci, commentò le accuse al dittatore sovietico presentate nel corso del XX congresso del Pcus. La difesa di Iosif Stalin da parte di questo grande intellettuale è un esempio tipico e non certo isolato di come le persone, anche le più colte, cadano ciclicamente vittima di fenomeni inquadrabili come virus della mente che si diffondono nel corpo sociale (l’espressione si deve a Gene Dawkins, il quale la utilizzò come titolo di un saggio contenuto nel suo libro Il cappellano del diavolo). Insomma, l’intelligenza non vale nulla se non è libera.

Solo accettando questa ipotesi è spiegabile come il mondo (non il mondo intero, ma gran parte della popolazione) cada periodicamente in preda a una sorta di allucinazione collettiva, che si tratti di grandi ideologie come nazismo e comunismo oppure fenomeni religiosi nei quali gli adepti sono diagnosticabili come “ammalati di fede” (anche questa è espressione di Dawkins). Alla diffusione virale contribuiscono anche altri fenomeni che conducono ad adesione acritica verso un certo pensiero, tra cui primeggiano la voglia di identificazione in un gruppo, la voglia di primeggiare, quella di mutamento sociale (in specie nel primo momento della diffusione della una nuova idea) o lo spirito di adattamento e la necessità di non restare esclusi (una volta che l’idea virale ha preso piede). Tale adesione quindi può dirigersi dunque tanto verso il pensiero innovatore quanto verso quello dominante, il conventional wisdom. Certamente la gravità di un virus della mente è variabile, proprio come avviene per i virus biologici. E non ogni idea, ideologia o ideale è catalogabile come tale.

Talora è difficile comprendere quando si sia di fronte ad un virus della mente perché la loro propagazione parte pur sempre da una qualche realtà o necessità reale: essi non sono infatti totalmente disancorati dal principio di realtà (il che li rende subdoli) ma questo viene amplificato e distorto. Se però ricerchiamo quello che è il tratto più caratteristico di questo fenomeno, e che lo rende riconoscibile, ebbene è senz’altro lo slancio utopico; o, meglio, il suo eccesso. Una volta che la mente è “virata” si diviene quello che Eric Hoffer ha chiamato “the true believer”: le credenze non possono più venire poste in discussione se non in casi davvero estremi che danno luogo a profondi ripensamenti e palingenesi. Un virus della mente, ancora non eccessivamente grave quanto a livello di adesione fanatica e a diffusione, che però manifesta decisamente i primi sintomi di un qualcosa che potrebbe diventare assai grave, è l’idea che un giudice possa giudicare con le lenti e i metodi del diritto, e poi possa intervenire in modalità giuridica, sulle più grandi tragedie dell’umanità. Idea che si è trasfusa nello statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale.

Anche in questo caso, come avviene per ogni virus della mente che si rispetti, vi sono molti illustri giuristi e personaggi di gran valore tra coloro che ne supportano l’esistenza e l’operato. D’altronde non mancano di certo ottime e reali ragioni alla base dell’istituzione della Cpi: nessuno desidererebbe l’impunità per i grandi criminali che infestano il pianeta. E anche in questo caso si è di fronte ad una grande utopia che, come tutte le grandi utopie, possono venire manipolate o comunque condurre a esiti indesiderati per eterogenesi dei fini. E però questa idea di poter amministrare la giustizia a livello mondiale, giudicando su grandi drammi con le metodiche tipiche del diritto, è fuori luogo per più ordini di ragioni.

Innanzitutto un errore di fondo: lo “straordinario” si colloca al di fuori del diritto, che nasce dall’esigenza di regolare gli ordinari conflitti all’interno di una società che ne accetta i principi. Il diritto, nella sua essenza più profonda, è il riconoscimento dell’altro e delle sue ragioni. La radice della giuridicità risiede nella coesistenza. Quando si arriva alla guerra il principio del riconoscimento dell’alterità è stato superato, l’altro è un nemico e ci si trova fuori del campo di applicazione del diritto. Si è visto che persino nel corso della pandemia di Covid-19, evento meno assoluto di una guerra, la foga del dibattito pubblico e l’azione di governo hanno rasentato, se non superato, il limite posto a presidio della conservazione del patto sociale, danzandosi pericolosamente tra stato di emergenza e stato di eccezione. Immaginare che si possa riportare nella “norma giuridica”, ovvero nella regola legale ordinaria, quanto accade quando avvengono immani tragedie come crimini di guerra, aggressioni, delitti contro l’umanità, significa pretendere dal diritto qualcosa che non può dare. Significa sovraccaricarlo, producendo la sua torsione verso l’autoritarismo dato che così questo si arroga un potere che non può avere.

Ma da dove nasce la pretesa di incarnare la giustizia universale, trasposizione giudiziaria dell’esportazione della democrazia manu militari? Dall’idea che sia possibile espungere in via amministrativa (la giustizia si amministra) la violenza nel mondo. Auspicandosi quindi di sottoporre la sovranità (il superiorem non recognoscens) di altri soggetti (gli Stati) alla sovranità di un giudice mondiale. Il grado di utopia è pericoloso: che un uomo possa giudicare la storia è davvero eccessivo. Dalle guerre, e dalle tragedie che inevitabilmente si collocano al loro interno (non c’è guerra senza crimine di guerra. Anzi, la stessa guerra è un crimine) si esce promuovendo il sentimento di pace, non con l’imposizione di giustizia reclamata come assolutamente giusta. Più onesto l’arcaico vae victis.

Se alla fine della Seconda guerra mondiale, nel nostro Paese anziché la pacificazione nazionale e la riconciliazione si fosse perseguita la via dei processi, probabilmente saremmo ancora in guerra. Né vale dire che gli Stati si sono sottoposti volontariamente alla sovranità della Cpi, perché molti non hanno aderito eppure sono soggetti alle sue pretese di giurisdizione mondiale, vedasi il caso di Israele nell’occasione del mandato di arresto emesso per Benjamin Netanyahu. Ma anche gli Stati che vi si assoggettano, quando la realpolitik richiama all’ordine ed alla dura necessità ecco che il pensiero magico evapora inesorabilmente. Infatti la Francia (e non solo lei) ha dichiarato che il primo ministro israeliano gode dell’immunità del mandato di arresto delle Cpi. E poi quanto dovrebbe essere giusto ed onnipotente questo giudice incaricato di cotanto compito? Non ha bias come ogni altro essere umano? Non ha una sua weltanschauung (visione del mondo) che lo conduce a scelte parziali e opinabili? E se addirittura fosse di parte e schierato, come ci si potrebbe sottrarre dal suo potere esercitato tra errori e cospirazioni? Quis custodiet custodem con così tanto potere? Altro che share of the power, qui si consegnano a dei giudici i destini del mondo.

Veniamo allora ad altro argomento, per il quale la Cpi si rivela organo pericoloso: la limitatezza dei suoi strumenti e del suo potere. A livello conoscitivo, a livello di indagini, a livello di implementazione di quella grande giustizia universale che vorrebbe rappresentare. Contrariamente al suo status, il suo operato sarà sempre parziale, incompleto e mai all’altezza del compito troppo gravoso. In una parola, sarà sempre ingiusto. E sarà anche foriero di conflitti, perché non si hanno materialmente gli strumenti per assicurare la giustizia universale declamata proprio come non si hanno quelli per esportare la democrazia in giro per il mondo. Si rammenta che nel 2023 la Corte ha emesso mandato di cattura nei confronti di Vladimir Putin (ricordo che la Russia non ha ratificato lo statuto di Roma, che per quel Paese dunque non vale).

Davvero si pensa che si possa arrestare Putin senza provocare una guerra? In primo luogo c’è il problema delle scelte, sempre discutibili: perché Putin si e non George W. Bush ai tempi dell’invasione in Iraq? Le diatribe, le faziosità, le parzialità, possono essere tante: Muhammar Gheddafi, Bashar al-Assad prima e Abū Muammad al-Jolani ora, Recep Tayyip Erdoğan e i curdi, il caso del supposto genocidio armeno da parte dell’Azerbaijan, Narendra Modi ed i Sikh, le tante persecuzioni verso i cristiani nel mondo, Xi Jinping e gli Uiguri; e infine la madre di tutte le questioni, quella palestinese. Forse solo il caso di Pol Pot non lascerebbe dubbi, ma si potrebbe sempre chiedere a Concetto Marchesi che magari ne avrebbe. Peccato che siano entrambi morti. Insomma mi pare che se vogliamo essere un po’ seri, di crimini contro l’umanità ce ne sono un po’ troppi per essere governati da una corte. Ne deriva il cherry picking e la giustizia di parte.

Ma, soprattutto, non si immaginano quali potrebbero essere le conseguenze di un eventuale atto così sconsiderato come l’arresto di un capo di stato quale Putin o, in ipotesi, Xi Jinping? Ma questa è gente che vive sulla luna o cosa? Si è di fronte a un evidente e pericolosissimo delirio di potenza, ovvero una volontà di potenza senza potenza. In grado di provocare guerre mondiali. Non è questa la via verso la pace. In subordine, allora, ce la si può prendere solo con i più deboli, qualche insignificante dittatore africano. Magari danneggiando un solo Paese, uno a caso, l’Italia. E quando in Italia in qualche modo qualcuno, magari con la collaborazione di più poteri (magari, ma qui è solo immaginazione, con la collaborazione del giudiziario e con il tacito consenso del massimo garante, informato dei fatti. Però è più facile prendersela con il ministro, che certe cose non si possono né dire e neppure pensare), si sottrarrà a vincoli che non possono essere rispettati, pena gravissime conseguenze per il Paese, ecco che si troverà sempre un’opposizione pronta ad allearsi con il potere esterno pur di sconfiggere il nemico interno (visto proprio come nemico, non come avversario). Come è sempre avvenuto nella storia della Penisola dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente in avanti.

Aggiornato il 13 febbraio 2025 alle ore 12:43