A Roma, dedicato un giardino pubblico alle vittime dell’eccidio di Porzûs del febbraio 1945

“Forte indignazione e ferma condanna per questo ignobile gesto, che rappresenta un oltraggio non solo alle vittime delle Foibe, ma anche ai valori di rispetto, memoria e unità che il Giorno del ricordo del 10 febbraio intende preservare. I responsabili di questo atto vergognoso saranno individuati e perseguiti con la massima severità”. Questo è il commento immediato del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, sull’atto di vandalismo perpetrato pochi giorni fa da ignoti contro il monumento della Foiba di Basovizza, unico esistente oggi sul territorio italiano. Esattamente ottant’anni fa, tra il 7 e il 18 febbraio 1945, 17 partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo, formazione di orientamento monarchico-badogliano, azionista, laico-socialista e cattolico, venivano uccisi da un altro gruppo di resistenti – in prevalenza gappisti iscritti al Pci – appartenenti invece, in gran parte, alla Divisione Garibaldi Natisone. L’eccidio – una delle pagine nere della Resistenza – avvenne nelle malghe di Porzûs, nel territorio del piccolo Comune di Faedis in Venezia Giulia, molto vicino al confine jugoslavo (oggi, per l’esattezza, sloveno).

Non fu la prima, né l’unica volta che nelle file della Resistenza italiana (o anche francese: basti pensare ai forti contrasti tra comunisti e gollisti) si arrivò a spararsi addosso. Storici come Claudio Pavone, col celebre saggio Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza: Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991) e (in modo, però, meno accurato e più sensazionalista) Giampaolo Pansa, con la serie di bestseller dal Sangue dei vinti in poi, hanno ampiamente smontato il mito, tipico della “vulgata” di sinistra, della Resistenza come fenomeno con diverse anime, ma sempre pronte ad accantonare le loro divergenze, anche strategiche, in nome di una superiore moralità di lotta (incarnata, naturalmente, soprattutto dal Pci…). La strage di Porzûs, portata a conoscenza del grande pubblico solo col film del 1997 di Renzo Martinelli, “è una strage dimenticata per troppo tempo”, dichiara Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato, intervenuto, venerdì 7 febbraio, all’intitolazione, a Roma, di un giardino pubblico dedicato – con un’apposita lapide – a quelle vittime del febbraio 1945 (in Largo Giovanni Chiarini, vicino Viale di Porta Ardeatina). “Ringrazio il consigliere comunale di Forza Italia, Francesco Carpano, tra i promotori di questa iniziativa, e la presidente del Consiglio comunale di Roma, Svetlana Celli”, intervenuta per il Campidoglio.

Causa immediata dell’eccidio, furono anzitutto le tensioni esistenti fra comunisti italiani e jugoslavi, riguardanti i territori della Slavia friulana, la regione collinare e montuosa del Friuli estesa tra Cividale e i monti sovrastanti Caporetto (in Slovenia), comprendente parti delle Valli dei fiumi Torre e Natisone. In tale zona operarono, dal 1943-1944, tre diverse formazioni partigiane: i comunisti sloveni del IX Korpus titoista, fortemente organizzati nel Mplj, alcune Brigate Garibaldi, come quelle inserite nella ricordata Divisione “Garibaldi-Natisone”, e la Brigata “Osoppo-Friuli”. Sino all’autunno del 1944, si era riusciti a riunire in un comando unificato le due parti, italiana e jugoslava, che avevano abbastanza collaborato. Ma “i guerriglieri jugoslavi – ha proseguito Gasparri – pensavano che, unendo a sé delle forze partigiane italiane, avrebbero potuto anche assoggettare le terre (friulano-giuliane, ndr) cui miravano”. “Peraltro”, ricorda ancora Gasparri, “le pressioni jugoslave furono esercitate col beneplacito del segretario del Pci, Palmiro Togliatti, disposto a concedere i territori desiderati, a cui si aggiungeva la città di Trieste”.

Nel documentato saggio Togliatti, Tito e la Venezia Giulia. La guerra, le foibe, l'esodo 1943-1954 (Ugo Mursia Editore, 2025), lo storico Marino Micich, direttore dell’Archivio-Museo storico di Fiume presso la Società di studi fiumani, al quartiere giuliano-dalmata di Roma, ripercorre la complessa, drammatica storia di Friuli-Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, dal 1943 al 1954. Pagine specialmente importanti del libro sono quelle dedicate ai rapporti tra Palmiro Togliatti (nella seconda metà del 1944, ministro senza portafoglio nel nuovo Governo Bonomi sorto dopo la liberazione di Roma) e il suo fiduciario in Italia Vincenzo Bianco. E soprattutto, a una lettera del segretario Pci a Bianco (19 ottobre 1944), in cui Togliatti lo invita a far conoscere alla direzione del Pci del Norditalia la linea già concordata con Edvard Kardelj (all’epoca uno dei 4 big del Pcj insieme a Tito, il futuro dissidente Milovan Djilas e Aleksandar Ranković). Linea “in cui si favoriva l’occupazione militare jugoslava di tutta la Venezia Giulia a discapito di quella angloamericana, e si stringevano chiari e solidi rapporti con il Pcj; solo per Trieste (che sarebbe tornata italiana solo nel 1954, ndr) Togliatti prevedeva di risolvere la questione dell’appartenenza politica a guerra finita”. L’iniziativa del Comune di Roma – sottolinea il professor Micich – di ricordare, il 7 febbraio, i 17 partigiani della Brigata Osoppo, uccisi da partigiani comunisti italiani che si erano posti dal settembre 1944 alle dipendenze dell’Armata popolare jugoslava di Tito, è veramente importante e giusta. Per far conoscere ulteriori pagine tragiche della storia del confine orientale. In quell’eccidio persero la vita, tra gli altri, il fratello minore di Pier Paolo Pasolini, Guido, e il comandante della Brigata Osoppo Francesco De Gregori, “Bolla”, zio del noto cantautore romano.

Aggiornato il 10 febbraio 2025 alle ore 14:00