Ancora su politica e giustizia

Sono imbarazzato nel proporre ai miei lettori un concetto già esposto pochi mesi orsono (Salvini e Montesquieu e Processare il “politico”) relativo al carattere degli ultimi contrasti tra uffici giudiziari e potere governativo: di concernere materia oggettivamente politica. A differenza di gran parte dei processi a governanti nell’ultimo trentennio, dove li si accusava per lo più di reati a carattere non politico (furto, appropriazione indebita, violenza carnale, evasione fiscale). Invece nei casi di rilevanza mediatica degli ultimi mesi il connotato comune riguarda la materia squisitamente politica. Si tratta cioè della sicurezza dei cittadini e della difesa del territorio dello Stato. Come scriveva Charles de Montesquieu: “In ogni Stato ci sono tre tipi di poteri: quello legislativo, il potere d’esecuzione delle cose dipendenti dal diritto delle genti. Il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile. Il secondo (di questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni. Il terzo, potere giudiziario, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”.

Ossia è attività che da secoli se non da millenni è considerata di competenza del potere esecutivo. E Vittorio Emanuele Orlando notava che la differenza di “natura” o di “materia” era soprattutto differenza di scopo: si operavano deroghe e talvolta rotture dell’ordinamento, al fine di soddisfare una necessità pubblica. A differenza dell’attività giudiziaria il cui nocciuolo fondamentale è accertare la conformità di una condotta a una regola onde è essenziale la correttezza del giudizio e l’imparzialità del giudice (almeno se si vuole una giustizia reale). E la cui conformità allo scopo (cioè l’opportunità) è poco o per nulla rilevante. Tali funzioni e attività vantano dei brocardi latini che le sintetizzano. Per la prima questa è Salus rei publicae suprema lex esto, ossia lo scopo prevale sulla regola, l’esistente sul normativo e il criterio principe per valutarla è il risultato; dell’altro Fiat iustitia et pereat mundus, per cui il diritto dev’essere applicato, anche se provoca danni e il criterio è la conformità della decisione giudiziaria alla norma applicanda.

La conseguenza è che se da una applicazione esatta della legislazione derivano gravi danni è corretto sopportarli. Ad esempio qualche migliaio di morti affogati nel Mediterraneo, problemi interni di sicurezza, miliardi di euro per l’accoglienza cedono rispetto al gradino alto dei valori costituito dalla giustizia, (qua) intesa come conformità al diritto. Al contrario, se si pone sul gradino superiore l’altro brocardo, è il contrario. Ma tenuto conto come anche nell’ordinamento giuridico l’esistenza precede la regolamentazione (si può regolare ciò che non esiste? È una pratica inutile) la risposta non può essere che Suprema lex prevale. E questo dovrebbe dirsi la sinistra che, a quanto pare, è tutta propensa al Pereat mundus (verso il quale ha una certa propensione). Ma finché col non dirlo o appesantendo il proprio argomentare con clausole e cavilli si distoglie l’attenzione dall’essenziale, va tutto bene.

Aggiornato il 07 febbraio 2025 alle ore 10:49