![Foibe e questione comunista](/media/8310036/carella-1.jpg?crop=0.049891627817743943,0,0.023090267177631293,0.023090267177631268&cropmode=percentage&width=370&height=272&rnd=133833983110000000)
A distanza di ottant’anni dalla tragedia delle foibe e dall’occupazione di Trieste da parte delle truppe titine la divisività ideologica prevale sulla verità storica. Si continua, presso larga parte della sinistra, a preferire la polemica, quando non la vera e propria negazione, in luogo della realtà effettuale. La ragione principale risiede nel fatto che quanto accadde nella primavera del 1945 nel capoluogo giuliano appartiene alla storia del comunismo italiano e al suo spirito anti-nazionale. È ormai accertato, grazie a un’ampia documentazione nella disponibilità degli storici, che i partigiani titini nel maggio-giugno 1945, allorché misero in atto una feroce operazione di pulizia etnica scaraventando nelle cavità carsiche cittadini inermi a migliaia, sapevano di potere contare sul silenzio dei comunisti italiani il cui leader già da tempo aveva stretto un patto di collaborazione con Josip Broz Tito. Si tratta di uno dei passaggi più oscuri della storia del partito guidato da Palmiro Togliatti. Del resto, che il “migliore” aderisca totalmente ai piani del maresciallo Tito si evince dalle indicazioni operative che invia al responsabile del suo partito nella Venezia Giulia, Vincenzo Bianco.
“Dobbiamo garantire – si legge nella nota – che alla testa della città di Trieste ci siano forze democratiche e antifasciste disposte alla collaborazione con l’esercito di Tito e a seguirne disciplinatamente il comando. Dobbiamo sapere che quanto più territorio viene assicurato ai compagni jugoslavi tanto più trionferà la democrazia”. Una raccomandazione che risulta essere in perfetta linea con l’obiettivo che si prefiggono i nazionalcomunisti jugoslavi a partire dall’autunno 1943 come documentato da una lettera che Tito fa recapitare al suo luogotenente in Italia, Edvard Kardelj, in cui scrive che è “indispensabile procedere all’eliminazione di tutti coloro che possono contrastare il nostro progetto di espansione verso una larga parte del Nord-Est italiano”. È in un contesto siffatto che viene presa la decisione di eliminare fisicamente i partigiani della Brigata Osoppo. Essi avevano una sola colpa: intendevano combattere per difendere il suolo italiano dagli attacchi delle truppe di Tito.
Il massacro della Osoppo (costituita da partigiani liberali, socialisti e cattolici) si consumò tra il 7 e il 18 febbraio 1945 nelle malghe di Porzûs. Se ne occuparono i gappisti guidati da uno dei più spietati partigiani rossi, il comandante Giacca. Ma il veleno anti-italiano continua farsi sentire anche a guerra conclusa, quando con il Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 (di qui la data del Giorno della Ricordo) viene ufficialmente riconosciuto il passaggio delle terre giuliano-dalmate alla Jugoslavia. La qual cosa costrinse circa trecentomila connazionali ad abbandonare le proprie abitazioni convinti di trovare accoglienza e aiuto in Italia. Non ci fu nulla di tutto questo, perché nel frattempo una spietata oltreché falsa propaganda comunista aveva provveduto a presentarli come pericolosi fascisti verso i quali non bisognava avere alcuna solidarietà. Una tale campagna di odio raggiunse il culmine il 18 febbraio 1947, quando un treno carico di profughi fu preso a sassate da un gruppo di giovani con le bandiere rosse mentre entrava nella stazione di Bologna. Dopodiché sindacalisti e compagni di partito impedirono ai volontari della Croce rossa di consegnare sia i cestini alimentari che il latte caldo preparato per i tanti bambini presenti sul convoglio. Il treno fu fatto ripartire con urgenza, scortato dai carabinieri, per evitare il peggio. Si attendono ancora le scuse per tanta crudeltà.
Aggiornato il 07 febbraio 2025 alle ore 10:38