Il dibattito pubblico italiano è da tempo il megafono dell’allarmismo. In linea con una tendenza globale, il nostro ordine del giorno quotidiano è una continua emergenza incombente. Dal “pericolo democratico”, all’imminente disastro climatico, al rischio guerra nucleare, il tenore delle notizie fa concorrenza al più decadentista degli scritti di Charles Baudelaire. In questo clima da Titanic, capita che un’oggettiva emergenza nazionale, in atto da anni e non imputabile a un singolo Governo, passi sotto traccia. L’Italia attraversa una crisi industriale incessante da almeno due decenni. Le cause remote sono molteplici e probabilmente anche connaturate alla cultura di un Paese che ha perso la sua vocazione industriale. Più semplici, invece, sono da indagare le cause della recente contrazione più marcata. A novembre 2024, l’Istat ha registrato un ulteriore calo dello 0,4 per cento della produzione industriale, che è in filotto negativo da 22 mesi. Una difficoltà generale pressoché diffusa in tutti i settori (particolarmente colpiti moda e automotive), ha trovato spazio sui principali quotidiani e tra i banchi del Parlamento solo in occasione della crisi di una grande azienda come Stellantis.
Per mesi l’intero arco parlamentare si è improvvisamente ravveduto sulla questione e ha sparato a palle incatenate sull’ormai ex ad di Stellantis, Carlos Tavares, arrivato a dimettersi in dicembre. Siamo sicuri, però, che sia tutta colpa sua? Siamo sicuri che questo sia l’atteggiamento giusto? È davvero sempre colpa del capitalista brutto e cattivo che pensa solo al suo avaro profitto? Da liberali, ci è imposto un ragionamento di più ampie vedute. Siamo onesti. Una visione davvero liberista della politica industriale vorrebbe uno Stato pressoché fuori da tutto. Di cosa ci accontenteremmo? Che quantomeno lo Stato, quando si approccia al mercato, sia un competitor al pari di tutti gli altri e non un leviatano prevaricatore. Quello che succede, invece, è che la strategia italiana di intervento industriale può essere banalizzata come segue: se sei un’azienda italiana in grave perdita ti nazionalizziamo, se sei un’azienda statale che produce utili per lo Stato ti svendiamo. E di questo leitmotiv abbiamo esempi lampanti che ci tornano in mente in tempi recentissimi, da Alitalia Ilva. A questo, si aggiunge un atteggiamento ancor più arrogante a fronte del fenomeno della delocalizzazione. Se un’azienda va via dall’Italia, è sempre colpa degli imprenditori che non hanno a cuore il nostro Paese, mai ci si chiede dei motivi per cui queste scelte vengono compiute. Il punto è fondamentalmente uno: guardare alla crisi industriale con l’intento di aumentare la produzione a ogni costo, sostanzialmente, significa sdoganare l’interventismo statale a oltranza. Cosa comporta questo? Che possiamo continuare a produrre in perdita le auto elettriche di Stellantis o il tessile di Benetton, ma le perdite, con uno Stato azionista, si riverseranno sulle tasche dei cittadini.
La verità è che fare industria in Italia è diventato (o forse lo è sempre stato, eccezion fatta per alcuni settori) un affare proibitivo. In primis, nel settore dell’automotive sono le folli politiche green votate all’elettrico ad aver reso il mercato europeo anticompetitivo e insostenibile. In generale, un’agenda liberale per il rilancio dell’industria, non solo è possibile, ma quantomeno auspicabile. Si parta da un generale piano di deregolamentazione e deburocratizzazione. Se è vero che molti vincoli provengono dalla tentacolare legislazione europea, a livello nazionale, dare un’occhiata a quanto messo in atto da Federico Sturzenegger dall’altra parte del mondo potrebbe essere un discreto punto di partenza (l’Argentina, inter alia, ha appena creato una piattaforma per segnalare gli ostacoli burocratici). Si tratta di togliere vincoli che ostacolino l’offerta economica. In questo senso, un semplice intervento amministrativo potrebbe non bastare: i tempi e l’invasività della giustizia italiana rimangono uno scoglio insormontabile. Abbiamo ancora negli occhi l’eliminazione dello scudo penale, di grillina memoria, che ha fatto fuggire i miliardi di ArcelorMittal da Taranto. Resta, tuttavia, la crepa nello specchio dei problemi del tessuto economico nostrano, ovvero il costo dell’energia. Un problema tanto eminente quanto di semplice, ma ostracizzata, soluzione: il ritorno del nucleare permetterebbe di abbattere la voce delle potenziali spese di quanti volessero investire in Italia. Ma, questa, forse, è un’altra storia e un’altra battaglia che richiede impellentemente una voce liberale nel nostro Paese.
Aggiornato il 04 febbraio 2025 alle ore 10:51