Ripensare l’Unione europea

Negli ultimi mesi, il Belpaese ha registrato dati non incoraggianti in merito alla produzione industriale, con il settore auto che risulta in forte crisi: in 11 mesi, la produzione è stata pari a 295mila vetture, in calo del 42 per cento rispetto all’anno precedente. Numeri impressionanti che non si vedevano dai tempi del dopoguerra, quando il processo di produzione arrivava a 280mila vetture (in un contesto sociale ed economico completamente differente da quello attuale). Ma il calo della produzione industriale si avverte anche in altri settori del manifatturiero; un esempio, è quello relativo ai macchinari (-30 per cento sul 2023). Questa crisi rischia di non essere congiunturale, ma di presentarsi come un declino strutturale dell’industria in Italia e in diversi Paesi Ue. Ad esempio, la Germania, dopo aver abbandonato il nucleare, ha inserito nel suo mix energetico una fetta consistente di fonti rinnovabili (eolico, solare), con tutti i danni che ne conseguono. I nostri principali competitor, Cina e Stati Uniti, vanno a gonfie vele, grazie anche ai massicci investimenti in innovazione, ricerca e formazione, e cresceranno ancora di più grazie alle politiche di sostegno che adottano per le imprese, tramite un uso rilevante degli aiuti di Stato, e alle politiche energetiche accompagnate sempre di più da un approccio tecnologicamente aperto e neutro. Gli Stati Uniti di Donald Trump, in particolare, riprenderanno ad estrarre maggiormente dai loro giacimenti di petrolio e di gas naturale, esercitando pressioni sull’Unione europea affinché aumenti l’acquisto di queste fonti fossili americane. Diversamente, la scure dei dazi (da parte dell’amministrazione trumpiana) si abbatterà sull’economia Ue e su quella italiana. Insomma, le difficoltà economiche e sociali di diversi Paesi (in primis la Germania), i conflitti e le tensioni geopolitiche, la supremazia della Cina e degli Stati Uniti, i possibili dazi di quest’ultima potenza, minacciano di trascinare il Vecchio Continente verso la recessione.

Il ritmo del progresso scientifico e tecnologico, economia digitale in primis, impone un passo diverso ed una visione strategica per lo sviluppo economico ed energetico, con riforme semplificatorie che rendano l’Ue più efficiente, veloce e competitiva. Partiamo dalla burocrazia. Le normative dell’Unione sulla sostenibilità delle imprese, come la direttiva sulla rendicontazione societaria di sostenibilità, che si unisce al carico burocratico generale, sono eccessive, con effetti negativi (soprattutto) per le piccole e medie imprese degli Stati membri. In secondo luogo, per rendere competitiva e ragionevolmente sostenibile la nostra economia (a partire da auto, siderurgia e chimica), la nuova politica industriale dovrà assumere un approccio meno ideologico e spingere verso una maggiore sicurezza energetica, per evitare che i settori produttivi più a rischio subiscano un processo (sempre più evidente) di deindustrializzazione. La suddetta nuova politica industriale, inoltre, dovrà essere accompagnata da un mix energetico diversificato (principio della neutralità tecnologica) che includa le fonti rinnovabili, l’idrogeno, le bioenergie, le tecnologie di cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio e, soprattutto, il nucleare.

Pertanto, il green deal dovrà essere ripensato, con investimenti tecnologicamente innovativi e intelligenti in grado di garantire la sostenibilità ambientale, economica e sociale. Ma c’è un altro punto fondamentale da considerare ai fini della competitività delle imprese e del benessere sociale: la creazione di un mercato unico dell’energia che aiuti a ridurre i prezzi e le differenze di costo energetico tra i vari Stati membri, con particolare riguardo per il disaccoppiamento tra il prezzo del gas e quello elettrico (soprattutto in Italia). In terzo luogo, è fondamentale realizzare una politica fiscale comune finalizzata non solo a creare un debito comune capace di finanziare i beni pubblici europei, ma anche a rafforzare l’unità europea. L’Italia dovrà, nel suo piccolo, intervenire sulla riduzione del carico fiscale (imposte e oneri sociali) delle imprese, che è largamente superiore a quello medio Ue (il 59 per cento contro il 40 per cento), e semplificare la burocrazia amministrativa. Due macigni che frenano la crescita del tessuto imprenditoriale italiano (e di conseguenza l’occupazione) e gli investimenti dall’estero. Infine, è necessario investire nelle competenze tecnico professionali. In particolare, le aziende italiane non riescono a reperire personale più specializzato e qualificato, non solo per il settore manifatturiero, ma anche per quello digitale, da tempo in forte diffusione. Negli ultimi 20 anni, si sono persi due milioni di occupati under 35. Per sopperire a queste difficoltà, una rete sempre più collegata tra scuole e imprese, attraverso il potenziamento delle scuole professionali e degli istituti tecnologici superiori, sarà cruciale per lo sviluppo economico e sociale del territorio e per affrontare al meglio le grandi sfide globali, provando a tenere il passo con l’innovatività e la dinamicità di player mondiali, come gli Stati Uniti e la Cina.

(*) Presidente di Ripensiamo Roma

Aggiornato il 28 gennaio 2025 alle ore 17:48