La rai licenziò per Gronchi i comici Vianello e Tognazzi

“Senza memoria non c’è futuro”, ha detto tra l’altro il presidente della Repubblica Sergio Mattarella celebrando il 25 aprile sull’Altare della patria. Presenti Giorgia Meloni e le più alte cariche dello Stato. Per la Rai c’è anche una controstoria. Quando Raimondo Vianello nel 1998, nel pieno dei successi televisivi della Rai con Sandra Mondaini, venne intervistato dal settimanale Lo Stato diretto dallo scrittore Marcello Veneziani disse: “Non rinnego né Salò né Sanremo”, si alzò un grande polverone mediatico. Il Corriere della sera volle immediatamente approfondire l’espressione dell’artista che aveva scelto di aderire alla Repubblica sociale. Molti artisti di teatro, cinema e televisione sono stati chiamati i “repubblichini”: come Dario Fo (aderì alla Rsi per ragioni pratiche), i comici Walter Chiari e Ugo Tognazzi, il regista Giorgio Albertazzi (“non sono mai stato fascista, ma la mia scelta nacque per orgoglio nazionale”), Mario Carotenuto, Marco Ferreri, Fede Arnaud Pocek, Mario Castellacci, lo scrittore Hugo Pratt, l’attore Enrico Maria Salerno, il padre di Pierluigi Battista, quello di Andrea Camilleri, lo scrittore Carlo Mazzantini (“a cercare la bella morte”), gli attori Luisa Ferida e Osvaldo Valenti (fucilati dai partigiani dopo la Liberazione), il ragazzo del Sud Giose Rimanelli che presentò a Cesare Pavese la testimonianza di 20 mesi di orrore della guerra civile, pubblicata nel libro Tiro al piccione. Giovanni Spadolini e Eugenio Scalfari scrissero sulle riviste fasciste ancora in piena guerra.

Personaggi che hanno costruito un pezzo della cultura italiana, per cui le loro scelte vanno ricordate nel contesto che vennero fatte senza retorica o strumentalizzazioni. Vianello e Tognazzi, anzi, nel 1959 vennero licenziati dai vertici di Viale Mazzini per una parodia dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra. Nel varietà Un due tre proposero la scenetta della caduta del capo dello Stato davanti al presidente francese Charles de Gaulle e che i giornali italiani avevano censurato. Negli anni della guerra, Raimondo Vianello era stato recluso nel campo di prigionia di Coltano allestito dagli Alleati presso Pisa, assieme a migliaia di ragazzi. Altri ufficiali e militari finirono, come Giovanni Roberti, Roberto Mieville, Giuseppe Martucci in un campo Pow a Hereford nel Texas per essersi rifiutati di collaborare con gli Alleati contro i tedeschi in cambio della libertà. E quando Gaetano Tumiati descrisse il travaglio di quei sentimenti e saputo che il fratello che era caduto combattendo in Italia come partigiano fucilato dai fascisti scrisse nel suo libro “che i loro destini, le loro scelte, apparentemente contrarie, si equivalevano sotto il profilo etico per la coerenza, il coraggio e la fermezza nelle opposte rispettive posizioni che il dovere imponeva a entrambi a resistere, l’uno tra i reticolati e l’altro nella lotta partigiana”. C’è voluto il presidente Carlo Azeglio Ciampi nel corso di una rievocazione sull’Appenino bolognese, domenica 14 ottobre 2001, per ricordare il capo della Brigata Matteotti Antonio Giuriolo, che aveva ai suoi ordini Enzo Biagi, a dire che “anche i ragazzi di Salò amavano l’Italia”. Uno strappo per un discorso di riconciliazione che mirava a superare il corto circuito storico-politico che continua a pesare sulle vicende post armistizio dell’8 settembre 1943. Una lezione quella dell’azionista, allora capo dello Stato, che sembra ancora inascoltata.

Aggiornato il 29 aprile 2024 alle ore 12:59