Il 24 marzo del 1874 nasceva Luigi Einaudi, colui che durante i molteplici festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario della sua nascita è celebrato come un illustre economista, lungimirante statista, nonché arguto saggista e scrittore e inoltre viene ricordato per il suo costante impegno europeista. Tra le tante accezioni che hanno contraddistinto Luigi Einaudi non può non essere citata quella riguardante il suo innovativo e illuminante pensiero politico liberale. Il suo prestigio ha indotto l’opinione pubblica a considerare Einaudi una sorta di “padre della patria”, anche per il ruolo ricoperto come co-fondatore della Repubblica italiana, contribuendo alla stesura della Carta costituzionale. Detto ciò, sarebbe riduttivo relegare la figura di Einaudi, insieme al suo pensiero veramente liberale, a una sorta di imbalsamato riferimento per tutti gli indirizzi politici e partitici di turno. Il pensiero liberale di Einaudi era inconfutabilmente chiaro e scevro da ogni compromesso o influenza ideologica. Il suo liberalismo si fondava sulla palese concezione che per sussistere la libertà, e ogni sua declinazione, ci deve essere la libertà economica, garantita dal rispetto quasi sacrale del principio della proprietà privata.
Tale concezione lo portava ad affermare che il liberalismo è la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, l’elevazione della persona umana, una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo. Pertanto, egli partendo dalla irriducibile difesa della libertà di iniziativa e di facoltà di scegliere la propria professione, affermava che politicamente il liberalismo è una dottrina di limiti e che la democrazia diventa liberale solamente quando la maggioranza volontariamente si astiene dall’esercitare coazione sugli uomini nei campi che l’ordine morale insegna essere riservati all’individuo, dominio sacro della persona. Da tale pensiero si evince che Einaudi fondava la società e la sua continua evoluzione sull’antagonismo dell’individuo, che egli considerava il perno principale di qualsiasi organizzazione sociale, perché proprio nell’antagonismo, che nella declinazione economica potremmo definire concorrenza, l’uomo è proteso a dare il meglio di se stesso, sempre se reso libero e autonomo di esprimere la propria individualità, ossia il proprio essere.
Per l’emerito secondo presidente della storia della Repubblica italiana, nonché il primo ad essere eletto dal Parlamento, il bello e la perfezione non coincidono con l’uniformità o con l’unità e quindi con il sistema collettivistico, ma con la varietà ed il contrasto, al punto che il prevalere dell’uniformità porta ad un processo di decadenza. Einaudi considerava riprovevole ogni forma di conformismo e ogni concezione che considera un ideale il pensare e l’agire allo stesso modo. Quindi, egli considerava le istituzioni pubbliche come uno strumento limitato a imporre dei limiti alla violenza fisica, al predominio di un uomo sugli altri, affinché tutti i cittadini siano messi nelle stesse condizioni di partenza per dirigersi verso mete diversissime tra loro. Tutto questo si fonda sul principio inalienabile de l’impero della legge come condizione dell’anarchia degli spiriti. Per Luigi Einaudi liberale è esclusivamente colui che crede nel perfezionamento materiale e morale conquistato con lo sforzo volontario, con il sacrificio, con l’abitudine a lavorare d’accordo con gli altri.
Egli era un fervido sostenitore del fatto che uno Stato è veramente liberale solo quando tutela il diritto al dissenso, alla critica, alla messa in discussione di qualsiasi idea e provvedimento, ma soprattutto quando garantisce il naturale sviluppo della concorrenza, la quale può esistere solamente quando la libertà di iniziativa consente a ciascun individuo di accedere nel modo più autonomo e meritocratico a qualsiasi professione esso desideri esercitare, perché solo così potrà autodeterminarsi economicamente e quindi di conseguenza potrà elevarsi moralmente, insomma l’esatto contrario del sistema-Italia fondato sul più bieco e incontrastabile nepotismo. Al postutto, nell’attuale contingenza economica e sociale che stiamo vivendo, con un clima internazionale sempre più belligerante, colpisce ulteriormente l’attualità di una sua riflessione riferita all’epoca dell’avvento del fascismo, che di seguito riporto letteralmente: “Guai però se dalla naturale aspirazione a liberarsi dalla bestiale guerra civile in che era degenerata tra il 1919 e il 1921 la lotta politica in Italia si cadesse senza contrasto nel conformismo assoluto al vangelo nazionalistico imposto da fascismo! Sarebbe la morte della nazione. Colla abolizione della libertà del pensiero, con la negazione della libertà di movimento e di lavoro in virtù dei bandi e del monopolio delle corporazioni, il paese è risospinto verso l’intolleranza e la uniformità. Sillabo, conformismo, concordia, leggi regressive degli abusi della stampa sono sinonimi ed indice di decadenza civile. Lotte di parte, critica, non conformismo, libertà di stampa preannunciano le epoche di ascensione dei popoli e degli Stati. Gli anni di forzato consenso da cui stiamo faticosamente uscendo hanno fatto nuovamente apprezzare agli italiani il diritto ed il vantaggio della discordia. Essi sentono che la libertà non è semplice strumento ma fine comune dal cui raggiungimento dipendono gli altri fini civili, politici e spirituali della vita. Ma, forse, questa è ancora più un sentimento che una convinzione profonda”.
Ipse dixit
Aggiornato il 28 marzo 2024 alle ore 09:39