L’Abruzzo non è la Sardegna

No, dico: e ora che si fa? Cosa ne facciamo di tutta quella retorica profusa a piene mani da due settimane a questa parte sul vento del cambiamento che dalla Sardegna avrebbe dovuto portare aria nuova in Abruzzo e poi dell’Abruzzo via via, lungo tutta la penisola tramite ribaltoni politici regionali dalle Alpi agli Appennini passando, per l’appunto, anche dalle parti del Gran Sasso? E poi, ancora, cosa rimane adesso di questa icona (simil) pop e in versione “last minute” di Alessandra Todde, alla cui immagine di neo-presidente è stato conferito fin qui un orizzonte che aveva molto di messianico ma decisamente poco, pochissimo, di politico poiché, si sa: in una cronica mancanza di (veri) leader progressisti, serviva una sorta di emblema apotropaico capace di scacciare gli influssi nefasti della destra meloniana? E del campo largo cosa diciamo se non che la virtù di includere sensibilità politiche differenti, senza un progetto unitario e una visione programmatica chiara e condivisa, si sostanzia nel mero vizio di sommare sigle elettorali al solo scopo di guadagnare qualche percentuale omeopatica in più rispetto ai propri avversari? Avere una coalizione ampia, aperta e plurale non assicura di per sé una vittoria automatica, checché ne dica Elly Schlein e il suo “se si corre uniti si può battere il centrodestra”.

E laddove si riuscisse pure nell’impresa, poi la difficoltà rimarrebbe comunque la governabilità, la capacità cioè di rendere armonica una misticanza identitaria e valoriale composita e assai conflittuale. E se è vero, e lo è, che la Storia (qualunque Storia) è maestra di vita, allora l’esperienza dell’Unione prodiana (ben più di) qualcosa dovrebbe insegnare. A maggior ragione oggi con un Carlo Calenda che un giorno sì e l’altro pure dispensa invettive e contumacia assortite contro i grillini, e con Matteo Renzi che certo non si fa parsimonioso quando si tratta di lanciare frecciatine al leader di Azione, per non parlare dei travagli considerevoli presenti nelle dinamiche correntizie all’interno del Partito democratico.

Far confluire nello stesso calderone massimalisti e riformisti di certo non porterà mai come esito un effetto sinergico o, per lo meno, una sintesi di alto livello, bensì una sequela di compromessi al ribasso che investono molti ambiti tematici, distinti e distanti, per dire: dalla collocazione geopolitica ai piani per il trattamento dei rifiuti, dalla gestione delle politiche migratorie fino alla costruzione di un welfare davvero funzionale e così via. La consultazione abruzzese ha fatto emergere, si spera in maniera definitiva, tutto questo. Hanno reso la Todde un incrocio tra una Madonna pellegrina e una statista di vaglia, prima ancora che le venisse data la possibilità di iniziare il suo mandato governativo nella terra dei quattro mori. Anche qui: una vittoria risicata e contraddittoria (dove le liste di sinistra sono state meno votate rispetto a quelle del centrodestra) favorita dai dilettantismi microscopici dei propri rivali, è stata narrata dai media del progressismo locale – sia nel modi che nei tempi – come nemmeno l’ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca. E invece stanotte abbiamo riscontrato che il vento sardo del cambiamento non era altro che uno spiffero d’aria incapace di uscire dal Golfo degli aranci.

Aggiornato il 12 marzo 2024 alle ore 10:04