La transizione agricola

Di rivolte contadine è piena la storia, anche recente. Spesso proprio dalle campagne sono partite le tante insorgenze che si sono opposte ai rivoluzionari da salotto, imbevuti di ideologia e insofferenti alle volgari necessità della terra. Talora si è trattato di insurrezioni che hanno originato contro-rivoluzioni, come in Vandea; talaltra sono durate lo spazio di una rabbiosa contestazione. Sovente si sono spente quando la terra ha imposto le sue esigenze, richiamando gli agricoltori in armi al loro lavoro. Sempre, però, hanno avuto il sapore del salutare smascheramento dell’artificiosità di tante ricette presentate come la luminosa strada verso il progresso dell’umanità. Ed è forse per questa ragione che contadini ed allevatori danno fastidio, ostinato retaggio del reale e delle sue ineludibili leggi.

I trattori che oggi marciano alla volta di Bruxelles fanno davvero rumore. Un rumore reso ancor più assordante dal silenzio dei tanti che hanno usurpato la scena politica e culturale internazionale con ricette presentate come ultimative per il benessere del genere umano.

Nessuna Greta si è levata per difendere le ragioni di chi si vede sacrificato sull’altare di una transizione sempre più ideologica e poco ecologica. Nessuna Davos viene convocata per affrontare la crisi di chi viene scartato da un dirigismo finanziario che mal sopporta chi reclama i diritti di un’economia che fa ancora i conti con la ricchezza vera, quella che passa attraverso la terra ed il sudore di chi la coltiva. Nessuna riunione straordinaria dell’Unione europea viene fissata per affrontare le questioni poste da chi rivendica la priorità di sostenere il lavoro della terra e non una terra senza lavoratori. Nessuno, ahimè, nel mondo cattolico, a parte la significativa presa di posizione della Conferenza Episcopale Europea, che si erga a difesa di chi il Creato lo cura ogni giorno, nei fatti lodando Dio per i frutti raccolti, mai dimenticando la strutturale condizione di dipendenza dell’uomo su questa terra ed il naturale senso del limite. Solo qualche nota stonata di chi pensa di poter strumentalizzare la protesta per scopi di basso cabotaggio partitico. Nulla più.

Non so come e quando terminerà la marcia dei trattori. Quel che mi pare indiscutibile è che essi, in un modo tanto rude quanto evidente, ci pongono davanti un’alternativa, non solo politico ed economica, ma direi quasi antropologica.

Una transizione agricola, insomma, che si oppone ad una transizione antropologica. Non si tratta qui di vagheggiare un romantico ritorno alle campagne. Si vuole, piuttosto, richiamare l’attenzione sul significato di un mondo, quello dell’agricoltura, che appare sempre più anacronistico, distonico rispetto ai circuiti dominanti, sia politico-economici che culturali. Il contadino, anche nella sua versione evoluta del terzo millennio, resta un soggetto difficile da comprendere in un mondo retto da un’economia sempre più immateriale, in un contesto sociale dominato da stili di vita pregiudizialmente orientati verso alimenti da laboratorio, in un ambiente culturale dove la mentalità dell’agricoltore è in radicale ed antitetica contrapposizione ad una concezione dell’uomo misura di tutte le cose e signore del suo destino, legato com’è alla necessità di rispettare tradizioni e ritmi naturali.

Prima o poi i trattori ritorneranno alla loro terra. Lo faranno nella consapevolezza di aver lottato per difendere le ragioni anche di chi, pur non lavorando la terra, sa che la terra non mente, a differenza delle tante, troppe, ideologie che pretendono di imporci una transizione verso una società non più a misura d’uomo. Allora avremo nostalgia del rumore dei trattori, il cui suono sa molto più di umanità vera rispetto a quello dei tanti urlatori che riempiono le piazze dicendosi preoccupati per il futuro di una terra che desiderano non più abitata. E non solo da contadini.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 09 febbraio 2024 alle ore 09:11