La premessa, oltre che d’obbligo, risulta altresì contaminata da una certa ridondanza, ma tant’è: qui non si vuole giudicare la sofferenza altrui, tanto più che lo scrivente è fedele alla riflessione tolstoiana per cui ogni infelicità è un’isola a sé, distinta e distante dalle altre che costituiscono l’arcipelago del dolore. Qui si vuole porre l’accento su un certo modo di fare giornalismo, una professione che molte, troppe volte non segue dei principi dettati dalla preparazione culturale, nonché dal buon senso, bensì da un’ideologia spicciola, fortemente radicata all’emotività del presente ma miope, oltreché poco rispettosa, dei destini altrui. Di chi non c’è più e di coloro che continueranno a portare sulle proprie spalle il fardello di un vuoto incolmabile.
In virtù di quanto scritto poc’anzi colpiscono le numerose polemiche scaturite dalla copertina della rivista L’Espresso dove campeggia Elena Cecchettin, la sorella della povera Giulia, uccisa dal suo ex fidanzato in maniera assai feroce (ma d’altronde quale omicidio potrà mai essere compiuto con spirito leggero?). Elena non è stata messa in prima pagina per il suo dolore, ma per le parole dettate da quel dolore. Parole più o meno condivisibili ma che, agli occhi di un certo mainstream progressista, riconducibili ad una visione della società contraria al cosiddetto patriarcato, inteso come un modello mentale di ottusità virile che coinvolge praticamente ogni uomo – quorum ego – per cui le donne sono esseri inferiori, soggetti irrilevanti da cosificare e, nei casi peggiori, da annientare.
Un siffatto approccio concettuale, va da sé, fa gioco ad un certa sensibilità politica – di cui L’Espresso è uno degli attori editoriali in campo – la quale non fa altro che associare la cultura patriarcale – intesa per l’appunto come portatrice di ogni male – alla “forma mentis” della Destra – non solo partitica, non solo politica, ma più in generale intesa come area socio-culturale – e il gioco è fatto.
Chi vuol trovare la causa dei femminicidi sa dove deve volgere il proprio sguardo. Ebbene, di fronte a questa operazione totalmente ideologica – ecco che arrivo allo stupore per una tale attenzione mediatica – è doveroso aggiungere che L’Espresso ormai è solamente lo sbiadito ricordo cartaceo di quello che era. Un tempo, nel mercato dei settimanali politici, era l’antagonista di Panorama, ma già da tempo ha, via via, perso la sua autorevolezza. Ben prima di quell’infelice numero con impresso il volto di Aboubakar Soumahoro a rappresentare la virtù contro il profilo di Matteo Salvini capace di incarnare ogni male.
L’Espresso infatti, dopo i fasti dell’accoppiata con La Repubblica, è stato considerato poco meno di una zavorra dalla famiglia Elkann che acquistò il gruppo editoriale Gedi da De Benedetti. Alla fine il periodico venne acquistato da Danilo Iervolino, ex patron dell’UniPegaso ed attuale presidente della Salernitana. Un passaggio di proprietà che, tra l’altro, venne osteggiato non poco dalla stessa redazione con la fuoriuscita dell’allora direttore. Ergo, il clamore suscitato da quest’ultimo numero è un tentativo disperato di far parlare nuovamente di sé – cosa che in parte è riuscita – ma purtroppo la nobiltà di un tempo è decaduta e nulla, al momento, fa pensare ad una prossima e concreta rinascita di una testata già faro della sinistra intellò.
Aggiornato il 23 dicembre 2023 alle ore 11:41