Democrazie e democrature eurasiatiche hanno un destino comune: l’iper-regolamentazione. Come contrastarla? In primo luogo, in un mondo ridotto al sistema binario (piace-non piace) serve un pensiero anti-ideologico e aperto. Da oltre quarant’anni si sparge terrore contro la deregulation reaganiana, che ha comunque apportato benefici nelle economie e società anglosassoni rispetto all’Unione sovietica e alla socialdemocratica Unione europea, dove persiste l’ipertrofia della legge già denunciata da Franz Kafka. Il dibattito politico italiano sul possibile ruolo politico di alcuni magistrati, per essere produttivo, dovrebbe partire proprio da Kafka. Lo stesso vale per la burocrazia.
STORIA
Nella Roma antica era consuetudine opporre al lusso (sumptus) che dilagò nell’era imperiale il trionfo della moralità matronale della Roma antica. “Questi sono i miei gioielli” disse Cornelia madre dei Gracchi, alludendo alle matrone che ostentavano i loro monili. Dietro il rigore si celavano però dei limiti. Oggi non è una questione semplice capire il nesso tra giacobini moderni e burocrazia: per esempio, dietro può esserci un sistema basato sui monopoli e sull’incesto tra Stato e i portatori di grandi interessi, inclusi i partiti. Ma quello è un sistema peronista, cioè un mix di socialismo e capitalismo con poco libero mercato, in cui le corporazioni combattono tra di loro, aizzate da partiti “pacifici ma rivoluzionari”. Meglio la visione unitaria di Menenio Agrippa: siamo tutti sulla stessa barca, e se combattiamo tra noi la barca affonderà. Al sacerdote pauperista, fanatico del “controllo” e giacobino non si può dire nulla: è irredimibile. L’obiettivo di una società più snella e meno ingiusta è compensare adeguatamente chi lavora, tutelando nel contempo il benessere dell’azienda per cui si lavora, oltre a dare servizi degni di questo nome ai cittadini. Purtroppo:
1) democrazie, dittature, totalitarismi hanno un denominatore comune: l’iper-regolamentazione, l’ipertrofia delle leggi e delle norme (sovranazionali, nazionali, regionali, comunali, aziendali);
2) l’ipertrofia delle norme porta alla decadenza delle società e della loro economia;
3) i nuovi imperi euroasiatici rispondono alla crisi accentrando il potere, sottomettendo i cittadini, dando luogo a guerre per conquistare territori, e – al contrario delle democrazie – snellendo le normative, ma per accentrare il potere sul capo (L’état c’est moi vale più per Robespierre o Lenin o Xi Jinping che per il re di Francia Luigi, XIV).
4) le democrazie in decadenza incrementano il controllo attraverso il catastrofismo trasmesso dai media, diventati parte del potere burocratico che si è incistato nelle democrazie dopo aver costituito l’essenza del socialismo reale e del peronismo tipico di America Latina e di parte dell’Africa post-coloniale (l’altra parte si è orientata verso le neo-dittature euroasiatiche).
Di conseguenza la regolamentazione cresce, arrivando a essere il primo giogo posto sul collo dei cittadini e il primo nemico della produzione di ricchezza.
(n.b.): limitare il lusso personale riguarda le proprie convinzioni etiche, la propria cultura religiosa, ma non dovrebbe mai diventare oggetto di norme e regole imposte dai gestori della Res publica.
Nella Roma repubblicana molte leggi servivano a limitare il lusso. Scrive Anna Bottiglieri (Le leggi sul lusso tra Repubblica e Principato: mutamento di prospettive, Mélanges de l’École française de Rome-Antiquité, 2016) che: “Lo scopo essenziale di questo corpus normativo sarebbe stato sia quello di difesa delle basi materiali, sia quello di garantire il ruolo sociale e politico della classe dirigente, formatasi all’interno di un ordinamento classista. Infatti, l’oligarchia romana era separata dal resto del popolo non solo per fattori sociologici, ma soprattutto per diritto, in un ordinamento a base censitaria e dunque timocratico”. Ciò vuol dire che la Res publica aveva anch’essa problemi democratici, se al posto di un imperatore c’era la classe degli oligarchi. Con Cicerone & Co. non siamo comunque nella Russia degli oligarchi di Putin, ma di sicuro la Repubblica romana non era una Mecca né un Eden.
Bottiglieri aggiunge che la rovina delle regole morali suntuarie era identificata con la rovina della Res publica. Allo stesso punto, ci troviamo oggi: combattere l’iper-regolamentazione e il dominio delle leggi sulle persone è visto come un vulnus allo Stato e al potere dei partiti che lo collegano con le masse. Ecco perché la Deregulation reaganiana viene predicata come peste bubbonica. “La Roma del quinto secolo appare una città stretta dalla crisi economica e concentrata su se stessa. L’assetto terriero è quello regolato dalla razionalità della divisione dei campi, percorsi da vie pubbliche e sentieri, separati da fasce di confini inusucapibili, segnati da termini posti con lunghi e complessi rituali”. L’impoverimento è forse una conseguenza di questa iper-regolamentazione ciceroniana?
È pur vero che si può diventare ricchi in una società come la Roma di fine Repubblica o la Cina comunista: o, dopo la vittoria contro Pirro e la conclusione della Prima guerra punica, “l’afflusso a Roma di ricchezze e di schiavi ebbe come conseguenza una modifica profonda della realtà economica e sociale. Nel breve spazio di mezzo secolo si passa, come rileva Gabba, dall’elogio della povertà di Fabrizio e Manio Curio all’ideale dell’onesto, ma ampio arricchimento”. Un altro caso da sottolineare è il ruolo assunto dalla magistratura nella difesa del potere costituito: “Nel periodo repubblicano la normativa suntuaria ha il suo cardine fondamentale nella censura. Le fonti sottolineano un forte potere di tale magistratura. Il solo garante era il censore, che utilizzava la nota censoria per costringere i cittadini romani all’obbedienza, e non di rado l’uso di questo mezzo aveva un pregnante valore politico. La reiterazione delle leggi viene giustificata proprio con il fatto che esse dovevano essere riproposte, per riaffermare con l’autorità della legge nuova il timore affievolitosi di quella più antica”.
REAGAN E LA DEREGULATION
La deregolamentazione non è, come si trova su Wikipedia, “quel processo per cui i governi e gli Stati cessano i controlli sul mercato ed eliminano le restrizioni nell’economia, al fine di incoraggiare le operazioni del mercato stesso, considerato come un organismo autoregolatore”. Non si tratta di eliminare i controlli (che servono là dove necessari), quanto di semplificare il sistema burocratico, riducendo il numero di leggi e regolamenti cui devono sottostare i cittadini, unici titolari della libera impresa. La deregolamentazione è nata grazie ai successi della scuola economica austriaca dell’Università di Chicago, con gli studi di Ludwig von Mises, di Friedrich von Hayek e Milton Friedman. Negli Stati Uniti c’era la percezione dell’utilità di una semplificazione delle interazioni società-Stato, avviata già dal presidente “socialista” Jimmy Carter, prima di diventare una bandiera del repubblicano Ronald Reagan. L’Airline deregulation act del 1978 ebbe successo, perché introdusse “le forze del mercato nell’industria pesantemente regolata delle compagnie aeree”. In Italia invece abbiamo socializzato – ovvero scaricato sulla schiena dei contribuenti – i costi della compagnia di bandiera fino a oggi: siamo in ritardo di 45 anni sulla vendita di Alitalia e continuiamo a pagare miliardi ogni anno per tenere in vita una mummia. A confondere le acque ci sono poi le false deregulation: “Molti processi etichettati come deregolamentazioni sono stati in effetti esempi di ri-regolamentazione affiancati a un processo di liberalizzazione del mercato che hanno avuto come protagonisti aziende pubbliche che sono state inserite nel settore privato” (vedi su Wikipedia). Ma il punto – oltre alle troppe leggi e quindi troppa burocrazia – è l’incapacità della classe politica di fare leggi (statali, regionali, oltre alle normative comunali). In Italia si diventa politico – al più – studiando Giurisprudenza, mentre mancano facoltà interamente dedicate alle “Public policy”, che negli Usa sono nate già negli anni Cinquanta. Il metodo scientifico di scrittura e manutenzione di una La policy anglosassoni oggi sono applicate in tutti i continenti
BUROCRAZIA DI PARTITO
Sabino Cassese e altri fanno notare che tutti “a partire dai capi dei governi, disprezzano la burocrazia, alla quale si fanno risalire tutte le colpe dello Stato”. Il problema era già ben presente dai tempi di Francesco Saverio Nitti. Cassese riecheggia Nitti: “La burocrazia italiana ha molte responsabilità, ma molte altre sono del corpo politico, sia perché i legislatori esondano, sia perché i governi lottizzano”. Si deve aggiungere però che è proprio l’organizzazione generale statale ad avere prodotto inefficienze a cui si aggiungono le malefatte della partitocrazia, commesse per accumulare potere denaro e voti, oppure dovute a un’incapacità persistente.
QUANTE SONO LE LEGGI?
Il numero è di difficile calcolo. Nel 2018, secondo il Ministero per i Rapporti col Parlamento erano “187mila quelle emanate dalla nascita dello Stato unitario a oggi”. Il Poligrafico di Stato invece dichiara: “Gli atti normativi in vigore sono circa 111mila”. Ma sono quelli pubblicati sulla Gazzetta ufficiale. Poi sono ancora validi circa 33mila regi decreti. Inoltre, ci sono le leggi regionali e le non meno impattanti delibere comunali.
QUANTO COSTA L’INEFFICIENZA DEI SERVIZI?
Secondo l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, nonostante alcune eccellenze, il malfunzionamento della Pubblica amministrazione grava su famiglie e imprese per 11 punti di Pil (225 miliardi di euro ogni anno).
ALCUNI DATI
– Il debito della nostra Pubblica amministrazione verso i fornitori privati è di 55,6 miliardi di euro;
– la lentezza della giustizia costa al Paese 2 punti di Pil l’anno, ovvero 40 miliardi di euro;
– il deficit logistico-infrastrutturale ci costa 40 miliardi di euro all’anno;
– sprechi nella sanità: oltre 21 miliardi di euro;
– sprechi e inefficienze nel trasporto pubblico locale: 12,5 miliardi di euro all’anno.
Anche se il totale include dati ricalcolati con diverse voci, è indubbio che l’entità del danno al Paese sia elevata (oltre due volte l’evasione fiscale, quasi due volte i costi della Sanità, pari al Pil prodotto da Trentino, Friuli e Veneto). Circa l’efficienza dei servizi a cittadini e imprese misurata in 208 regioni europee, la prima realtà italiana è la Provincia Autonoma di Trento, che è al centesimo posto, seguita da Regione Friuli (104esimo) e Veneto (109esimo)! Inoltre, le ultime posizioni dell’indice europeo sull’efficienza amministrativa sono quelle di nostre regioni meridionali (Puglia al 190esimo, posto, Sicilia al 191esimo, Basilicata al 196esimo, Campania al 206esimo e Calabria, penultima, al 207° posto). Quanto alle aziende la cattiva burocrazia costa a queste ogni anno 57 miliardi (conseguenze anche su lavoratori e consumatori). Fonti: Istituto Ambrosetti e Deloitte. Secondo Confcommercio “se l’Italia avesse la stessa qualità dell’amministrazione della Germania, tra il 2009 e il 2018 la crescita cumulata sarebbe stata del 6,2 per cento invece del 2,3 per cento” (l’Italia è terzultima tra i Paesi Ocse per qualità dei servizi).
INFRASTRUTTURE INCOMPIUTE
Rispetto ad altre nazioni europee, siamo messi molto male. Nel 2018 in Italia, (dati dell’Osservatorio Cpi-Mit) le opere pubbliche incompiute erano: in Sicilia 154, Sardegna 80, Puglia 33, Abruzzo 29, Campania 28, Calabria 28, Lombardia 26, Lazio 20, Basilicata 18, Marche 17, Molise 14, Emilia-Romagna 14, Toscana 13, Piemonte 13, Veneto 10, Umbria 10, Liguria 4, Friuli 3, Valle D’Aosta 2, Trentino-Alto Adige 1. Gli impianti di depurazione adeguati alle norme Ue aspettano da 18 anni di vedere la luce. Abbiamo già pagato a Bruxelles decine di milioni di multa.
EDILIZIA ED EUROPA
È prioritario snellire e velocizzare le pratiche per gli appalti pubblici. Un geometra mi ricorda che dopo il Covid-19 la regolamentazione è aumentata, anche su necessità e richieste della popolazione. “Quando ho iniziato a lavorare come geometra nel campo dell’edilizia, una pratica per opere interne, per la ristrutturazione o sistemazione di un appartamento, era composta da un unico foglio. Oggi, per fare un piccolo intervento, viene richiesto di compilare testi e documenti pari a un piccolo libro. La digitalizzazione non ha semplificato ma aggiunto. A ciò si aggiunge, nel settore edilizio, la mancata riforma del Titolo quinto della Costituzione, così che lo Stato legifera in edilizia, la Regione legifera in edilizia, il Comune legifera in edilizia. Tre istituzioni sulla stessa materia, così i regolamenti dell’edilizia sono un ginepraio fatto apposta per mettere in crisi cittadini e professionisti. Lo Stato aumentare la regolamentazione, così incrementa il personale e le sue dimensioni. La regolamentazione infine produce corruzione e allontana le persone dal controllo del mercato e dell’economia”.
L’eurodeputato Marco Campomenosi (Lega) ricorda le direttive sul riciclo dei rifiuti urbani e sulla circolarità degli stessi. “Ci sono imprese italiane che lavorano su questo campo con risultati migliori di altre nazioni. Adesso la Commissione ha introdotto anche il riuso, il che significa che per esempio il packaging McDonald’s e in genere del settore agroalimentare, non deve più andare al riciclo ma dev’essere lavato e riutilizzato dal cliente successivo (senza calcolare lo spreco di acqua e sapone?). Alcune aziende italiane del riciclo a quel punto dovrebbero importare dal Caucaso o dall’Africa rifiuti e prodotti da riciclare. A livello normativo la proposta della Commissione è stata migliorata dall’Europarlamento, ma la questione rimane sul tavolo. Non c’era bisogno di questa norma. L’idea infatti arriva dopo pochi anni da quella sul riciclo con modifiche, adempimenti e costi nuovi ad aziende che si erano appena attrezzate sulla circolarità”.
ASSIOMI
1) Il livello burocratico della nazione è denotato perfettamente dallo spid, e dal cambio delle sue password;
2) perché non si chiede ogni due anni al cittadino se vuole davvero essere obbligato a ogni sito dove finisce di sottoscrivere o rifiutare i cookies pubblicitari? Uno non può utilizzare il proprio Id elettronico una volta per tutte?
3) Anche perché poi la privacy va tranquillamente a farsi benedire quando ogni ora si viene vessati dalle telefonate dai call center;
4) Almeno la visita oculistica per rinnovare la patente andrebbe eliminata, come avviene nel Regno Unito, dove lo Stato sa che i cittadini di una certa età si preoccupano loro per primi di mettersi gli occhiali giusti per vedere dove vanno con la loro auto. A me è capitato di avere una visita “oculistico-umoristica” siffatta: “Ci vede?”. Risposta “Sì”. “Ok”, al che mi ha consegnato il benedetto documentino.
Aggiornato il 06 dicembre 2023 alle ore 18:19