Meglio de Gaulle di Renzi

Charles de Gaulle, durante la Seconda guerra mondiale, fu animatore e punto di riferimento della Resistenza militare francese contro il nazismo e il fascismo. Schierò le forze armate rimaste a lui fedeli a fianco degli inglesi; contribuì in questo modo a salvare parzialmente l’onore della Francia, dimostrando che c’era una alternativa al regime collaborazionista di Vichy. Negli anni Sessanta dello scorso secolo, de Gaulle rese un altro rilevante servizio storico alla sua Patria: contribuì a risolvere la crisi indotta dalla volontà dell’Algeria di rendersi indipendente dalla Francia. Riconobbe il diritto degli algerini di autodeterminarsi, come meglio ritenevano. Lui, che era militare, dovette fronteggiare militari francesi ribelli, i quali volevano fare un colpo di Stato e precipitare la Francia nella Guerra civile. Eventi drammatici, che facevano seguito alla messa in discussione dell’importante Impero coloniale francese e alla sconfitta subita dai francesi in Indocina.

Per rafforzare i poteri del governo legittimo, de Gaulle realizzò, in più tappe, il mutamento della forma di governo: si passò da un sistema parlamentare a una repubblica cosiddetta “semipresidenziale”. Il mutamento consisteva, in primo luogo, nel fatto che il presidente della Repubblica, cioè il capo dello Stato, venisse ora eletto, non da un collegio ristretto di parlamentari, ma direttamente dal corpo elettorale dell’intera nazione, a suffragio universale. Il presidente diventava simbolo di unità, al di sopra delle fazioni e dello spirito di parte. La Francia è un Paese, non soltanto molto bello, ma plurale, con rilevanti differenze storiche, culturali, urbanistiche, artistiche, da zona a zona, esattamente come è avvenuto in Germania, o in Italia. Il presidente riconosce e difende il pluralismo, ma con la sua stessa carica afferma, nel contempo, il valore dell’unità.

Nella forma di governo francese, il presidente della Repubblica dispone, come meglio ritiene, dei poteri di governo. Nomina un primo ministro e i singoli ministri. Può revocarli in qualsiasi momento. A differenza di quanto avviene nella forma di governo propria degli Stati Uniti d’America (presidenzialismo), in Francia non si riscontra una separazione tendenzialmente netta fra i diversi poteri. De Gaulle era parte integrante della tradizione europea: così il primo ministro francese non può disinteressarsi degli orientamenti del Parlamento (l’Assemblea nazionale), ma è figura di raccordo. Nelle vicende della Quinta Repubblica francese il più importante partito che ha espresso il presidente della Repubblica è sempre riuscito, di norma, a dirigere politicamente il Parlamento. Dopo l’uscita di scena di de Gaulle, nel 1969, ciò si è verificato quando il potere di governo era detenuto dal Partito gollista, come ai tempi di Georges Pompidou, o di Jacques Chirac; o era detenuto dai liberali centristi di Valéry Giscard d’Estaing; o dal Partito socialista, il cui più significativo esponente è stato François Mitterrand. Qualora il primo ministro non riesca ad avere buoni rapporti con l’Assemblea nazionale, il presidente della Repubblica lo sostituisce con altra persona che garantisca esiti migliori.

L’attuale presidente, Emmanuel Macron, incontra maggiori difficoltà proprio perché non è sostenuto da un vero partito, ben strutturato, radicato nelle diverse zone del Paese. È importante che si comprenda che nella forma di governo semipresidenziale il ruolo del Parlamento non è meramente decorativo. A partire dal 1688, anno in cui in Inghilterra, si compì la cosiddetta Rivoluzione “gloriosa” (tale, perché senza spargimento di sangue), sono profondamente penetrati nella cultura europea la concezione e il mito della sovranità del Parlamento, rappresentante della nazione. Concezione che ha determinato un decisivo cambio di mentalità: in precedenza il sovrano nominale (ossia, il re) si riteneva avesse poteri assoluti; in seguito fu ricondotto nei limiti dei poteri che la Costituzione gli assegna.

A che serve il Parlamento? Nella sua genesi storica, troviamo l’antica regola secondo cui non ci può essere prelievo fiscale (tassazione) che non sia stato previamente approvato dall’Assemblea rappresentativa dell’intera nazione. In altre parole, il Parlamento serve in primo luogo ad approvare il bilancio e le leggi finanziarie dello Stato. Tale prerogativa nasce dall’esigenza di tutelare i cittadini dalle pretese ingiustificate del re. Oggi che, per fortuna, i tempi dell’assolutismo monarchico sono alle nostre spalle, permane l’esigenza che l’opinione pubblica abbia esatta contezza dell’andamento dei conti pubblici. L’obiettivo è quello stabilito dall’articolo 81 della nostra Costituzione: tenere in equilibrio le entrate e le spese. Così come avviene per il bilancio dello Stato, tutte le decisioni più importanti che riguardano la comunità nazionale dovrebbero essere discusse e deliberate dal Parlamento.

Questa, purtroppo, resta soltanto una bella teoria. La Costituzione della Repubblica italiana è entrata in vigore il primo gennaio del 1948 e delinea una forma di governo parlamentare. Nella realtà, il potere legislativo è esercitato, non dai deputati e dai senatori, ma dal Governo, attraverso il ricorso continuo ai decreti-legge, i quali dovrebbero essere adottati esclusivamente nei casi di necessità e di urgenza. Nell’ordinamento italiano il presidente della Repubblica dovrebbe essere al di sopra delle parti politiche e svolgere una funzione di garanzia dell’osservanza della Costituzione. Troviamo, effettivamente, numerosissimi esempi di lamentazioni presidenziali contro l’abuso dei decreti-legge, ma, di fatto, nella prassi nulla cambia. In ciascuna Legislatura, si avvicendano poi almeno tre governi di differente indirizzo politico. Posto che la durata di una Legislatura è stabilita in cinque anni, il continuo mutamento di governo significa che non possono essere realizzati obiettivi politici ambiziosi. L’azione di ogni Esecutivo è di corto respiro. Tutto viene sempre rimesso in discussione, come nella tela di Penelope.

Matteo Renzi ha una spiccata personalità, ha molti talenti e risulta umanamente simpatico a chi sappia perdonargli qualche eccesso di spregiudicatezza. Quando ricopriva la carica di presidente del Consiglio dei ministri, Renzi si sentì all’altezza di un compito non banale: riformare la nostra Costituzione. Pensò di riuscire nell’impresa alleandosi con un ex presidente del Consiglio, nonché leader di un partito di opposizione: Silvio Berlusconi. Per Renzi e Berlusconi, entrambi uomini pratici, il diritto, anche costituzionale, sembra avere poca importanza. Ad esempio Renzi era contrario a tenere in vita il Senato, perché contrario al bicameralismo. Poiché l’abolizione tout court sembrava troppo radicale, ecco una furbizia indegna di un costituente: la proposta che il Senato diventasse un doppio lavoro, con alcuni consiglieri regionali chiamati, part time, ad esercitare il ruolo di senatori.

Per gli uomini pratici, l’approvazione di una nuova legge elettorale era ben più importante di una limitata riforma della Costituzione. Sono ormai note a tutti le convinzioni di Berlusconi in materia di legge elettorale: egli aborre i collegi elettorali uninominali, propri del sistema maggioritario, e, per quanto riguarda il sistema proporzionale basato su liste concorrenti, è contrario al fatto che gli elettori possano esprimere preferenze. Desidera, infatti, che i parlamentari siano scelti e graziosamente nominati dal leader di ogni partito, secondo una logica di fedeltà a lui. Parlamentari effettivamente selezionati dal corpo elettorale sarebbero politicamente troppo indipendenti, quindi incontrollabili. Renzi si acconciò volentieri a tale impostazione. Fu così approvata la legge elettorale cosiddetta “Italicum” (Legge 6 maggio 2015, n. 52).

L’intesa fra Renzi e Berlusconi fece naufragio. Motivo del contendere fu la scelta del candidato da proporre alla carica di presidente della Repubblica. La Corte Costituzionale dichiarò illegittime alcune disposizioni dell’Italicum prima che quella legge elettorale venisse mai applicata. Le proposte di modifica della Costituzione, mediocri in modo desolante, furono nettamente respinte dal corpo elettorale nel Referendum confermativo del 2016. La denominazione di “Italicum” non è stata scelta a caso: essa è in linea, purtroppo, con tutto un costume nazionale. Tale costume consiste nello svilimento del Parlamento, ridotto a una condizione di dipendenza strutturale dal Governo. Lo strumento tecnico per perseguire questo obiettivo è il premio di maggioranza: si prevede che la lista più votata tragga forza da un consistente premio in seggi, cosicché in Parlamento ci sia una maggioranza numerica adeguata e garantita. Il modello resta sempre quello della Legge Acerbo, dal nome del politico Giacomo Acerbo, approvata nel 1923. Quella legge maggioritaria ebbe un’importanza decisiva nel rafforzare il fascismo a livello istituzionale, premiandolo nelle elezioni del 1924 e aiutandolo così a trasformarsi in regime. Un parlamentare eletto grazie al premio di maggioranza ha, come suo primario dovere, quello di sostenere il Governo e di votare disciplinatamente per esso. Non è più libero di individuare il modo, a suo avviso migliore, di servire la nazione, come vorrebbe la Costituzione.

Renzi ancora non sa spiegarsi perché abbia perso il Referendum confermativo del 2016. Ciò che più importa, non ha mutato opinione circa la necessità che la legge elettorale contempli un premio di maggioranza. Così si è inserito nel dibattito promosso dal Governo Meloni sull’esigenza di mutare la forma di governo. Propone che non si parli di semipresidenzialismo (sgradito a tutte le sinistre), suggerendo, in alternativa, il modello del “sindaco d’Italia”. Come sempre, è abile tatticamente, perché dà all’attuale maggioranza la speranza di potersi allargare ad alcuni gruppi della attuale opposizione: Italia viva e Azione. Il lettore rifletta su un dato: nell’ordinamento della Francia le elezioni dell’Assemblea nazionale (ossia del Parlamento) si tengono in un momento diverso, successivo, rispetto a quello dell’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica. Non si tratta di un dettaglio: significa che anche il Parlamento dispone di una propria, autonoma, legittimazione popolare. Il presidente deve fare i conti con l’organo rappresentativo; utilizzando, a questo scopo, l’abilità del primo ministro, oltre che la forza parlamentare del partito (o della coalizione di partiti) che ha espresso il presidente medesimo.

Un presidente della Repubblica, sprovvisto di una maggioranza parlamentare certa, è una “anatra zoppa”, come dicono negli Stati Uniti d’America? Forse sì, ma se la Costituzione prevede più organi costituzionali (presidente e Parlamento) è perché in un ordinamento libero c’è bisogno di entrambi. Il Governo esercita un ruolo fondamentale, ma tutto non può risolversi nel suo circolo ristretto. A me sembra, dunque, che Renzi stia predisponendo una trappola per la presidente Giorgia Meloni. Trappola in cui non vorrei questa cadesse. Si può vincere, o perdere, con dignità; ma i pasticci, in materia costituzionale, li paghiamo tutti noi italiani. Di conseguenza, non si perdonano. Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e i suoi alleati di governo hanno l’opportunità storica di concepire una riforma della parte seconda della Costituzione, la quale serva davvero a migliorare l’efficienza del sistema istituzionale italiano. Non basta una riforma purchessia.

Il mutamento della forma di governo è diventato un passaggio necessario; ma da solo non basta. In Italia c’è un eccesso di normazione. Le procedure sono sempre complesse. Così le uniche opere che vengono realizzate in tempi accettabili sono quelle in cui si deroga al regime ordinario e si procede con modalità straordinarie. Ciò comprova che le procedure ordinarie sono sbagliate. Inutile prevedere conferenze di servizio sempre più allegate: il fatto che molti enti siano chiamati a esprimere un parere non garantisce la bontà di un’opera; né serve ad allontanare i rischi di corruzione dei decisori politici e dei funzionari. Un parere resta sempre un fatto meramente cartaceo, un adempimento burocratico. L’interesse generale, invece, è che le opere si facciano, siano realizzate a regola d’arte, siano ultimate quando più servono, ossia in tempi accettabili.

Occorre intervenire radicalmente anche sull’attuale assetto delle regioni, correggendo i tanti errori contenuti nella riforma costituzionale del 2001, concepita da un governo di centrosinistra. In altro articolo di stampa, che ho diffuso il 22 maggio scorso, ho cercato di argomentare la mia contrarietà a riconoscere al Veneto e alla Lombardia una forma di autonomia differenziata, utilizzando la procedura contemplata dall’articolo 116 della Costituzione, come modificato nel 2001. Secondo la mia opinione, in questa fase nulla bisognerebbe variare delle regioni a statuto speciale. Le quali hanno una precisa ragion d’essere. Occorrerebbe, invece, sostituire le quindici regioni ordinarie esistenti con tre Macroregioni. Allo scopo di ben amministrare, diventa decisiva la considerazione della dimensione, territoriale e demografica, dell’ente regionale chiamato a programmare e poi dell’ente di governo territoriale chiamato a realizzare le opere programmate. Quando ci si debba occupare della salute di grandi laghi (come il lago di Garda, o il lago Maggiore), quando si debba monitorare il corso di grandi fiumi, quali il Po, con tutto il suo sistema di affluenti, non è sufficiente che ogni regione si doti di un proprio, distinto, piano delle acque.

Il medesimo discorso vale per tutto il lavoro di prevenzione divenuto indispensabile rispetto ai fenomeni naturali. C’è da fronteggiare eventuali periodi di siccità e allora bisogna aver costruito nuovi invasi e nuove dighe, nei quali immagazzinare acqua dolce. C’è da prevenire i danni provocati da piogge alluvionali e allora bisogna aver costruito vasche di espansione e canali, per dirottare in essi l’acqua in eccesso. È poi mera follia considerare che comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti possano svolgere i compiti di stazioni appaltanti. Il sentimento di attaccamento nei confronti della propria comunità locale, con il suo paesaggio, la sua storia, le sue tradizioni, anche gastronomiche, il particolare dialetto, è un sentimento nobile, che merita apprezzamento. In ciò si rinviene l’esigenza migliore espressa da coloro i quali si professano assertori del valore dell’autonomia.

Nel passaggio dal diciannovesimo secolo alla contemporaneità, la dimensione regionale non può, tuttavia, continuare a essere vista come un’imprescindibile funzione di governo e amministrativa. Oggi servono più che mai capacità di fornire risposte ai problemi della comunità sociale. Servono efficienza ed efficacia nell’azione amministrativa; allocazione produttiva delle risorse finanziarie disponibili (sempre scarse rispetto alle esigenze), in modo da evitare sprechi e disservizi. Ho conosciuto molti sedicenti progressisti e molti sedicenti democratici schierati a difesa dell’attuale assetto regionale (diciannove regioni e due province autonome). Non lo facevano, però, per nobili motivi, ma per un preciso interesse. Quello di aumentare i posti in cui collocare i politici di professione, nonché i posti per moltiplicare le funzioni apicali dei dirigenti burocratici, amministrativi e tecnici. Si comprende, pertanto, come la proposta dell’istituzione di tre (soltanto tre) Macroregioni sia stata male interpretata: non pochi, i quali considerano immodificabile l’attuale realtà istituzionale, a dispetto delle continue dimostrazioni della sua inefficienza, hanno pensato si trattasse di una ulteriore sovrastruttura.

Per questo ho ritenuto necessario precisare: “Le singole regioni che compongono le macroregioni non eleggono più i propri organi statutari perché la rappresentanza democratica dei cittadini in esse residenti si realizza attraverso l’elezione degli organi delle macroregioni”. Quando un modello organizzativo, quale quello da me proposto, si presenta come più semplice, più razionale, più efficiente, più economico, schierarsi a difesa dell’assetto esistente significherebbe tutelare il parassitismo di pochi. Quello della partecipazione democratica è un argomento di comodo. Per quanto mi riguarda, ho letto troppi saggi contro la partitocrazia, perché gli argomenti dei sedicenti democratici possano farmi impressione. I lettori immaginino quali risparmi economici potrebbero derivare dalla soppressione di 12 presidenti di regione, 12 Giunte regionali, 12 Consigli regionali, numerosissime funzioni apicali dei dirigenti burocratici. Risorse finanziarie così recuperate, da destinare a finalità di servizio del bene comune.

Sono convinto che un autentico, sincero, assertore del valore dell’autonomia dovrebbe preferire la razionalità alla conclamata inefficienza, la migliore allocazione delle risorse, rispetto agli sprechi. Domanda provocatoria: sarebbe preferibile istituire una macroregione del Nord Italia, con capoluogo Milano, oppure riconoscere forme di autonomia differenziata al Veneto e alla Lombardia? Non temo che un’eventuale macroregione del Nord possa diventare una minaccia per lo Stato italiano unitario. Il corpo elettorale rappresentato sarebbe composto da emiliani-romagnoli, veneti, lombardi, liguri, piemontesi; senza dimenticare i numerosissimi meridionali che lavorano e risiedono al Nord, in particolare in Lombardia. Riuscire ad avere un consenso politico maggioritario nei confronti di un corpo elettorale così composto, sarebbe impresa tutt’altro che facile.

Concludiamo con la legge elettorale. A Berlusconi non piacciono i collegi elettorali uninominali, tipici del Regno Unito (Inghilterra) e degli Stati Uniti d’America. Previsti anche da tanti altri Stati; ad esempio, la legge per l’elezione del Bundestag in Germania contiene la previsione che il 50 per cento dei seggi totali siano assegnati in collegi uninominali. Vantiamo pure una tradizione italiana al riguardo. La legge elettorale per l’elezione della Camera dei deputati del Regno di Sardegna (poi d’Italia) stabiliva che i deputati fossero eletti in collegi uninominali. In un primo turno di votazione, chiunque poteva proporsi come candidato. Nel secondo turno di votazione la competizione si restringeva ai due candidati risultati più votati e prevaleva chi avesse riportato anche solo un voto in più. Questa era la legge elettorale voluta da Camillo Benso di Cavour.

I collegi uninominali costituirono la grande novità della legge elettorale che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: Legge 4 agosto 1993, n. 277 (per la Camera). Si passò da una legge proporzionale a una prevalentemente maggioritaria, con il 75 per cento dei seggi attribuiti appunto nei collegi. Con quella normativa furono eletti i parlamentari di tre legislature repubblicane, dalla dodicesima alla quattordicesima, a partire dalle elezioni del 27 marzo 1994. L’ultima legge elettorale con la quale si è votato, la Legge 3 novembre 2017, n. 165, che porta il nome del deputato Ettore Rosato, prevede anch’essa l’elezione di una quota di deputati in collegi uninominali. Si tratta, tuttavia, di una quota troppo bassa, cosicché la dimensione territoriale dei collegi risulta eccessivamente vasta. È possibile, anche se politicamente non facile, approvare una legge elettorale della quale non ci si debba vergognare (per carità di Patria, taccio a proposito del cosiddetto “Porcellum”).

In una Camera dei deputati composta da 400 membri, sarebbe possibile istituire 352 collegi, nell’intero territorio nazionale, corrispondenti ciascuno a circa 165mila abitanti. Qualora una lista, o una coalizione di liste, prevalesse nettamente in termini di capacità di raccogliere consenso nel Paese, otterrebbe una cospicua maggioranza parlamentare. Risultato che sarebbe conseguenza della logica stessa del sistema maggioritario in collegi; senza che vi sia bisogno di prevedere alcun premio di maggioranza, predeterminato per legge. L’articolo 56 della Costituzione, come riformulato dalla Legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1, prevede che 8 deputati siano eletti nella Circoscrizione Estero. Resterebbero da assegnare ulteriori 40 deputati, corrispondenti cioè al 10 per cento del totale dei seggi. Proporrei di attribuirli con metodo rigorosamente proporzionale (senza soglie di sbarramento), sulla base di liste concorrenti, nel Collegio unico nazionale. Tecnicamente, ciò richiederebbe una seconda scheda di votazione, per l’elettore. A differenza di quanto contemplato dalla Legge Mattarella del 1993, non dovrebbe essere previsto alcuno scorporo del voto proporzionale rispetto al voro conseguito nei collegi uninominali.

La limitata quantità di seggi così attribuiti con metodo proporzionale garantirebbe una presenza in Parlamento anche alle forze politiche minori: un effettivo diritto di tribuna. Come ulteriore vantaggio, la candidatura in una lista presentata in sede di Collegio unico nazionale costituirebbe una sorta di vetrina: al cospetto dell’intera comunità nazionale, ciascuna forza politica potrebbe schierare le proprie personalità più prestigiose e rappresentative. In conclusione, l’obiettivo che perseguo è quello che il Governo sia reso più stabile e autorevole, ma senza, contestualmente, mortificare il Parlamento. Si vorrebbe che questo, finalmente, fosse eletto in virtù di una legge elettorale onesta.

Aggiornato il 08 giugno 2023 alle ore 11:26