Un protettorato italiano in Libia (video)

Tutto il mondo accademico e politico ormai concorda sull’impossibilità di fermare l’immigrazione dai Paesi poveri verso quelli più ricchi, soprattutto che ogni blocco alla libera circolazione degli uomini si risolve in atti coercitivi, in prove di forza militare. Fino a poco tempo fa l’Unione europea appaltava a Turchia e Libia il compito di ergere steccati all’immigrazione: oggi il governo di Ankara ha alzato la posta in materia e in Libia non c’è più il referente per queste politiche (Gheddafi).

Allora in tanti s’interrogarono su come fermare l’immigrazione, rendere produttiva la Libia e formare lavorativamente chi vorrebbe abbandonare l’Africa: tre problemi su cui si confrontano da decenni classe dirigente italiana ed europea, docenti universitari e manager di aziende interessate ad entrare nell’affare delle risorse libiche.

Da oltre sessant’anni la Libia non rappresenta più lo scatolone di sabbia raccontato nei resoconti coloniali d’inizio Novecento, e forse a causa dei fenomeni migratori è tornata a rappresentare il “bagno penale” d’epoca turca. Per questo motivo in troppi rimpiangono gli accordi italo-francesi che, dopo un incontro al Gran Hotel di Abano Terme, permettevano all’allora giovane Gheddafi di ergersi prima a padre della nuova Libia e poi a simbolo della revanche panafricana.

Ma oggi nessuno s’azzarda a parlare nuovamente di Libia e progetti. E chi tentasse di prendere l’argomento in salotti e convegni forse rischierebbe il silenzio dei più blasonati interlocutori o, peggio, d’essere stigmatizzato come “politicamente inopportuno”. Ma due visionari con le idee chiare, ovvero il professor Pino Pisicchio (già parlamentare) e l’ingegner Giovanni Piccolillo, hanno deciso di sfidare conformismo istituzionale e raffinata ipocrisia dei salotti diplomatici lanciando il progetto di un protettorato italiano in Libia. Ma da intendersi come non comprensivo dell’intero Stato Nordafricano, ma applicato in una determinata area da trasformare in una sorta di Taiwan del Mediterraneo, un porto franco concesso all’Italia per un determinato tempo: uno spazio grande all’incirca quanto la provincia di Roma. Un accordo con solidi avalli internazionali, a mo’ di concessione governativa libica alla frontaliera Italia. Del resto, lo Stivale non è nuovo ad accordi con lo Stato africano, basti solo pensare alla pesca (tema ancora scottante con ancora vertenze diplomatiche e giudiziarie) o ai tanto vituperati accordi sul petrolio (comunque ci facevano risparmiare sulla benzina).

Di fatto l’Italia permetterebbe che in un lembo di Libia si possa concentrare l’immigrazione africana. In quel pezzo di terra vigerebbe la legge italiana e la civiltà europea, permettendo ai migranti di lavorare e apprendere tecniche e percorsi. Tutte risorse che non attraverserebbero più il Mediterraneo rischiando la vita, perché troverebbero in Libia standard lavorativi europei e certezza del diritto. Un progetto che sottrarrebbe potere ai trafficanti d’esseri umani, ma soprattutto darebbe respiro alle prefetture italiane. Grazie a questo progetto la Libia potrebbe cambiare volto, assurgendo a Dubai del Mediterraneo, con industrie, infrastrutture e recettività turistica.

Va aggiunto che, se nel secondo Novecento veniva dimostrato che la Libia è uno dei maggiori produttori mondiali di greggio, oggi possiamo affermare che è anche nelle condizioni ideali per produzioni agricole irrigue. L’acqua sotterranea (o fossile) è la più importante risorsa idrica della Libia, anche se la disponibilità è limitata più o meno quanto il petrolio. Forse il protettorato incrementerebbe la domanda d’acqua, provocando carenze soprattutto nel nord del Paese: problema facilmente risolvibile producendo acqua grazie alla condensa forzata nelle zone desertiche, ove verrebbe posizionato un importante sito fotovoltaico. Il protettorato lavorerebbe a potenziare le risorse idriche, valutando scientificamente l’impatto ambientale di questo sfruttamento, e trasferendo dall’Italia know-how e tecnologie sulle nuove risorse idriche non convenzionali. Gestione dell’acqua e sostenibilità delle risorse coinvolgerebbero università e società italiane.

Perché è ovvio che l’utilizzo delle acque fossili presenti nel Sahara, nel bacino di Murzuch, ha vita limitata. Certo, i progetti di desalinizzazione lungo le coste forse devono anche incontrare il beneplacito di altre nazioni con gli occhi ben puntati sul Mediterraneo. Ma non dimentichiamo che gli esperti italiani sono i migliori specialisti sui rischi ambientali degli impianti di desalinizzazione: processo in grado di fornire una soluzione valida ai problemi di scarsità d’acqua, allo stesso tempo un metodo costoso e con un impatto ambientale significativo. Ecco che produrre acqua per condensazione forzata ed in zone desertiche permetterebbe di sviluppare irrigazione mirata, trasformando il deserto come già avvenuto in altre nazioni nordafricane e mediorientali. Infatti il dissalamento andrebbe usato in un periodo limitato ed in occasioni eccezionali, poiché richiede alta intensità energetica e provoca cambiamenti nell'ambiente marino: rammentiamo il problema delle specie aliene al territorio che si sviluppano nei pressi dei dissalatori. Comunque il protettorato comporterebbe per l’Italia un investimento in macchinari e nuove tecnologie, dal settore idrico al manifatturiero, garantendo una tale produzione di ricchezza da ammortizzare in poco tempo l’impegno economico. Sia Pisicchio che Piccolillo hanno anticipato che un protettorato richiederebbe un importante investimento in sicurezza militare, e perché l’Africa è nota per la sua instabilità politica e per la presenza di oltre tremila eserciti rivoluzionari e mercenari che potrebbero puntare gli occhi su un ricco protettorato.

Ma questo investimento (come ci spiega l’ingegner Giovanni Piccolillo nell’intervista rilasciata a L’Opinione) costituisce l’unica soluzione ad una migrazione incontrollata, che alimenta solo lo sfruttamento della manodopera extra Ue.

Un progetto che certamente dovrà confrontarsi con le mire francesi e turche, e qui i “visionari” si domandano quanto l’Unione europea voglia effettivamente fare qualcosa per l’Africa che non sia una conferenza o le raccolte fondi per le emergenze. Una certa raffinata ipocrisia diplomatica potrebbe consigliare d’accantonare simili sogni, così i due progettisti non nascondono di confidare nell’audacia di qualche politico stufo di galleggiare e desideroso di passare alla storia.

Aggiornato il 30 maggio 2023 alle ore 15:19