Don Milani: emancipazione o populismo?

La celebrazione corale del centenario della nascita di Don Milani è una buona occasione per sottolineare come la sinistra, quella italiana in particolare, sia guidata da una filosofia inguaribilmente utopica, poco lungimirante e ostile alla democrazia liberale e a ciò che, questa, implica anche sul piano sociologico.

Così l’opera letteraria e pedagogica di Don Milani viene elogiata come sostenitrice di un futuro educativo emancipato dal rigorismo formale dell’educazione tradizionale e orientata all’uguaglianza ma, più che a favore dei ragazzi di povere origini, essa è palesemente, come sempre a sinistra, agguerrita contro i privilegi dei ‘figli del dottore’, ossia della borghesia, incitando a condividere “l’orrore di tutto ciò che è borghese”. L’analogia con le idee socio-economiche socialiste è fin troppo evidente poiché, anche su questo tema, l’animus è lo stesso: più che a favore dei meno abbienti i socialisti sembrano quasi sempre motivati dal livore contro chi ha di più e dunque, ancora un volta, contro la borghesia.

Il libro di Don Milani del 1967, Lettera ad una professoressa, è un coacervo di intenzioni apparentemente buone e di idee politiche decisamente miopi. Apparentemente buone perché non si può certo negare che molti ragazzi, in quell’epoca, vivessero fra mille difficoltà la propria esperienza scolastica. Ma anche miopi perché le soluzioni proposte erano non solo utopiche ma soprattutto tali, se applicate, da peggiorare la situazione.

La tesi principale, non certo originale, di Don Milani indicava nella scuola primaria di quegli anni una sorta di meccanismo studiato apposta per consolidare la permanenza dei ragazzi nelle classi sociali di provenienza, rendendo dunque impossibile la mobilità verticale: i figli della borghesia lanciati verso l’istruzione superiore e le professioni più prestigiose e i figli delle famiglie povere, operaie o contadine, destinate a servire le classi superiori attraverso i lavori più umili e modesti. L’introduzione, nel 1961, della scuola media unificata aveva già ridotto la distanza culturale fra i ragazzi provenienti dai diversi ceti sociali ma non già per arricchire di contenuti culturali degni di questo nome anche le scuole professionali – rispettando il dettato costituzionale liberale dell’uguaglianza dei punti di partenza – bensì ‘al ribasso’, anche attraverso l’eliminazione di elementi didattici, come il latino, sciaguratamente ritenuti superflui in un’Italia che, paradossalmente, si auto-elogia di continuo per la sua ricchezza culturale. Don Milani insiste però nella ulteriore perorazione di una scuola in cui, in oggettiva sintonia con la quasi-pedagogia di Antonio Gramsci, si trattasse di ‘fatti reali’ e non di pure ‘nozioni’, e si abolisse il voto, discriminante per eccellenza fra i ragazzi e detestato simbolo del principio dell’obbedienza, che “non è più una virtù”. Inutile dire che il tutto convergeva poi in una proposta politica anch’essa poco originale ma, per i tempi in cui veniva avanzata, sicuramente ‘illuminante’: “Non bisogna essere interclassisti ma schierati”, ovviamente a sinistra.

Anche sul piano strettamente pedagogico Don Milani perde l’occasione di stimolare i ragazzi verso una crescita il più possibile ricca di impegno personale e di speranza poiché, da un lato, tesse le lodi della sola rivendicazione comune, cioè di classe, dei diritti e, dall’altro, definisce ‘avarizia’ l’eventuale tentativo dell’individuo il quale, credendo nelle proprie capacità, agisse senza accodarsi al gregge.

Una cosa è sicura: Don Milani è stato il precursore di cambiamenti sociali e politici che, seppur non certo addebitabili esclusivamente al suo pensiero, si sono collocati senza dubbio nella prospettiva da lui anticipata. La scuola media unificata ha abolito la ‘distanza culturale’ fra i ragazzi dei vari ceti sociali ma, purtroppo e come previsto, semplicemente generalizzando la mediocrità, con ricadute negative, quanto mai evidenti per chi ha insegnato all’università, sulla formazione e la preparazione delle generazioni successive degli stessi insegnanti. Inoltre, il successivo allargamento dell’accesso alle università, utilissimo se ben realizzato, ha costituto un’apertura ben presto dominata per anni da contestazioni del tutto simili a quelle che Don Milani avanzava verso le scuole primarie, inclusa la pretesa del ‘voto politico’ e il ‘voto di gruppo’, tanto in voga nel sessantotto, destinato a respingere velleità individualistiche spregiativamente definite discriminatorie.

Tuttavia la forza della realtà umana non si lascia facilmente dominare. Le classi sociali, più correttamente definibili ‘ceti’, che solo i marxisti più duri di vista ritengono cose storiche anziché riconducibili alla natura umana nonostante siano presenti in società di tutti i tempi e di tutti i luoghi, si sono semplicemente spostate un po’ più in là e così la borghesia manda spesso i propri figli a studiare in scuole private e nelle università ritenute le migliori o persino all’estero, un po’ per snobismo e un po’ a ragion veduta. In questo modo la selezione, sdegnosamente rifiutata con grande miopia, espulsa dalla porta rientra inesorabilmente dalla finestra. Nel frattempo, d’altra parte, intere generazioni sono cresciute in un’atmosfera nella quale la rilevanza dell’individuo, con la sua libertà, la sua responsabilità e il suo senso etico di solidarietà, è stata affossata a tutto vantaggio degli ‘interventi dello Stato’, visto, da comunisti e cattolici, come unico possibile dispensatore di giustizia sociale. Insomma, ce n’è abbastanza per guardare a Don Milani come ad un uomo che, se non rivoluzionario, è stato quanto meno uno dei vari ispiratori di quel populismo socialista all’italiana nel quale si sono intruppati coloro che Giovanni Malagodi simpaticamente definiva i “comunistelli di sagrestia, con le lenti spesse e i brufoli sul collo”. Nel cuore dei quali è assai arduo stabilire se prevalga l’amore verso i ceti meno fortunati o il mero e sterile rancore per i ceti borghesi.

Aggiornato il 29 maggio 2023 alle ore 12:18