Legislatura e dualismo costituzionale

Qualche mese fa (il 21 dicembre del 2021) osservavo, in un articolo, che Costantino Mortati aveva elaborato il concetto (nella modernità dovuto principalmente a Ferdinand Lassalle) e coniato il termine di “Costituzione materiale”. Il termine, secondo il giurista calabrese, indicava “una raffigurazione della Costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo Stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura… e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della divisione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto–ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare “Costituzione materiale” per distinguerla da quella cui si dà nome di “formale””.

Nella Repubblica i partiti del Cln (Comitato di liberazione nazionale) che avevano elaborato il testo della Costituzione alle successive prime elezioni politiche del 18 aprile ’48, conseguivano oltre il 90 per cento dei voti, espressi da circa il 90 per cento degli elettori: ne scaturiva che almeno l’80 per cento dei cittadini italiani aveva votato i partiti del Cln. Fino agli anni ’80 la situazione variava di poco: i partiti ciellenisti ottenevano all’incirca l’80-85 per cento dei voti espressi.

Con l’ascesa della Lega e il crollo del comunismo tale consenso plebiscitario si riduceva. Già nel 1994 i partiti non ciellenisti (e non rivendicanti l’eredità di quelli) riportavano tra un terzo e la metà dei voti espressi. Nel decennio trascorso il divario è cresciuto: il successo dei partiti anti-establishment dal 2018 (al più tardi) ha la maggioranza dei suffragi. Oltretutto, anche tra gli altri l’affectio alla Costituzione formale appare ridimensionato, almeno in alcuni. La novità (prevista) – a questo riguardo – è che Fratelli d’Italia, cioè il partito dei volutamente esclusi dall’arco costituzionale, ha conseguito alle politiche il 26 per cento dei suffragi, mentre il Partito Democratico, cioè il partito della “Costituzione più bella del mondo”, ha il 18 per cento. Inoltre, la maggioranza anti-establishment è stata confermata. Dalla propaganda elettorale (e successiva) del Pd basata in larga parte sull’antifascismo e sulla provenienza post-fascista di Giorgia Meloni, a breve probabilmente incaricata di formare il Governo, si ricava che la Repubblica, “nata dalla Resistenza” e dotata della Costituzione “più bella del mondo”, avrà un presidente del Consiglio “post-fascista”. A parte la foga della propaganda, questo è un bel caso di “paradosso delle conseguenze”, scriverebbe Julien Freund. Infatti, se a una Costituzione formale corrisponde una Costituzione materiale diversa – e questo è il caso – la conseguenza non è che il popolo (e le forze politiche che ne hanno il consenso) deve adeguarsi alla Costituzione formale, ma che quella formale dev’essere adeguata a quella materiale, almeno in una democrazia. Anche se sono convinto che nella situazione in cui è ridotta l’Italia, con oltre cinque milioni di poveri assoluti, vincoli esterni spesso matrigni, debito pubblico alle stelle, saccheggio fiscale e così via, quello di cambiare la Costituzione formale non è il problema più urgente. Non bisogna comunque trascurarlo né rinviarlo alle calende greche. Soprattutto perché è la Costituzione ma soprattutto la forma di Governo parlamentare a essere una delle ragioni della decadenza della Repubblica. Questo già quando le forze riconducibili alla Costituzione materiale avevano un consenso largo: ora che ci troviamo in una situazione di non corrispondenza tra formale e materiale, l’urgenza appare superiore. Il sintomo più evidente dell’allargamento del divario dopo, s’intende, il deperire dei partiti ciellenisti, è il crescere dell’astensionismo: governante la “Seconda Repubblica”, l’astensionismo è aumentato di oltre 20 punti percentuali (alle elezioni politiche).

Secondo un modo di pensare diffuso, volto a considerare l’osservanza della legalità come criterio “moderno” della legittimità, è sufficiente osservare le procedure legali, in specie quella di successione al potere, perché il potere sia legittimo. Tuttavia, senza disprezzare del tutto tale tesi, questa va ridimensionata. Ciò che fa delle leggi fondamentali un costituente/legittimante e un principio costituzionale è che siano scritte non sulla carta, ma nel “cuore” dei governati. Due pensatori agli antipodi come Jean-Jacques Rousseau e Joseph de Maistre lo sostenevano. E tanti altri hanno condiviso tale concezione: da Maurice Hauriou a Ferdinand Lassalle. Quest’ultimo riteneva la Costituzione formale “un pezzo di carta”, sul quale erano “buttati giù” i rapporti di forza effettivi. Se però questa operazione non era ne è realizzata, ne consegue un dualismo costituzionale, in cui a differenza (parziale) del dualismo di potere, chi ha la maggioranza non governa effettivamente, e chi governa effettivamente non ha la maggioranza. Situazione squilibrata, che presuppone di essere (rapidamente) risolta.

Aggiornato il 21 ottobre 2022 alle ore 10:05