Grande guerra e identità nazionale

Come già si è detto in precedenza, condizione essenziale perché le commemorazioni di eventi possano servire a qualcosa, il che non è nemmeno certo, è che esse si propongano come occasioni di serie riflessioni storico-critiche e non retoriche o apologetiche circa gli eventi di cui ricorre l’anniversario. Ma così non è stato. E così non è! La ricorrenza del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia, è stata per lo più occasione di sentimenti dissacratori e antirisorgimentali (esaltazione del Regno dei Borboni, usurpazione dei Savoia) o di celebrazioni di regime trionfalistiche e retoriche. Una assoluta mancanza, se non in qualche isolato caso, di prospettazioni interpretative e/o reinterpretative, che, senza nulla togliere al valore e alla grandiosità del conseguimento dell’indipendenza nazionale come il più grande evento rivoluzionario del XIX secolo, potessero gettare nuova luce sulle sue eventuali difettosità, sul continuum Risorgimento/post-Risorgimento/guerre mondiali e sul perché tante premesse di quel risultato in realtà non siano state poi mantenute.

Così pure per gli eventi celebrativi per il centenario dell’ingresso nella Prima guerra mondiale dell’Italia nel maggio 1915, sono stati spesso solo retorici e a volte anche grotteschi. Anche la ricorrenza del centenario della vittoria italiana del 4 novembre 1918 contro l’Austria non è sfuggita a questa regola, anzi è sceso un generale silenzio (salvo qualche cerimonia di rito!), una non-commemorazione che ha avuto per lo più matrici ideologiche, a volte con contorni addirittura faziosi. Un silenzio commemorativo che contrasta persino con l’enfasi posta sul centenario dell’entrata in guerra. Perché? In primis, ponendo a base della guerra solo l’aspirazione irredentistica (ma così non fu!), cioè la liberazione delle terre ancora soggette al dominio straniero fa esattamente il paio con l’altra liberazione di circa un trentennio più tardi, anzi ne è funzionale. In secondo luogo, quella “vittoria dimenticata” fu prodromica all’avvento del fascismo, ne fu pronuba, in quanto il fascismo si ergeva a unico erede dell’arditismo, del volontarismo, del cameratismo, dell’aristocrazia da trincea, cosicché il mito dell’uomo nuovo andava a braccetto con il mito della vittoria mutilata. Il tutto in base ad una visione ideologica in base alla quale quella vittoria, più che superare la disperazione di Caporetto, fu una vittoria ambigua da cui il fascismo trasse forza e consenso, ciò che stride con il mito della Repubblica, la quale, anziché sforzarsi nella ricerca di nuovi valori condivisi e fondanti della civitas nazionale, dall’antifascismo continua a trarre, almeno per alcune grandi forze politiche che la sorreggono, la sua ragion d’essere. Anche questo centenario del Milite Ignoto, celebrato lo scorso 4 novembre, dunque, al di là di omaggi formali e retoriche rappresentazioni, rientra in questa categoria da dimenticare, anche perché, pur esso, ha rappresentato uno dei simboli cardini della propaganda fascista.

Buona parte della storiografia è concorde nel ritenere, nel solco interpretativo risorgimentale, la Prima guerra mondiale una “Quarta guerra d’indipendenza” – una rappresentazione che, come vedremo, avrà analoghe conseguenze interpretative anche sulla Seconda guerra mondiale – in perfetta continuità con la Terza del 1866, allorquando il generale Pollio, in chiusura del suo libro su Custoza, identifica il trionfo di Vittorio Veneto come vindice della sconfitta di Custoza. Ma siffatta ricostruzione di aggancio diretto della guerra mondiale al percorso risorgimentale, ricondurrebbe il tutto solo ad un esile filone irredentistico, che invece era venuto ad integrarsi in un mix sempre più articolato di progetti colonialistico-imperialisti e nazionalisti, diventando con essi intercambiabile. Insomma, resta legittima la qualificazione della Prima guerra mondiale come “Quarta guerra d’indipendenza” soltanto a patto di ricomprendere nel suo coacervo rivendicativo interessi ed aneliti ben al di là di quelli unicamente irredentistici. In effetti, con la firma dell’accordo con le potenze dell’Intesa, siglato il 26 aprile 1915, che prevedeva l’entrata in guerra dell’Italia con modalità offensive, venivano sì riesumate aspirazioni irredentistiche, temporaneamente accantonate per effetto della sua adesione alla Triplice alleanza nel 1882, ma erano poste sul tappeto anche quelle nazionalistiche e colonialistiche a spese della Germania a guerra finita. Si concedeva infatti il Trentino, il Tirolo Meridionale, Tieste, Gradisca e Gorizia, l’Istria, una parte della Dalmazia e le sue isole, Valona e il Dodecanneso oltre ad acquisizioni territoriali in Africa e in Asia Minore. Insomma, un elaborato e complesso mix rivendicativo che era proprio di una grande potenza, o almeno aspirante tale, tutt’assieme irredentistico, imperialistico-colonialistico e nazionalistico.

D’altra parte, qual è il significato del termine indipendenza in senso lato? Per un primo aspetto, sicuramente quello connesso alla riunificazione del territorio nazionale mediante l’acquisizione delle terre irredente, cioè non ancora salvate, e quindi la capacità di autodeterminarsi nell’ambito del territorio nazionale. Ma, sotto un altro profilo, una grande potenza, per assicurarsi una reale indipendenza, cioè una sua incontrovertibile sovranità sopranazionale, non può tollerare né limitazioni ai suoi confini naturali né restrizioni allo sviluppo di una propria politica internazionale, come chiavi strategiche per non rendere la sua indipendenza puramente nominale. Proprio in siffatta ottica, non vi è dubbio che la Prima guerra mondiale possa configurarsi a pieno titolo come “Guerra d’indipendenza”, in quanto tesa a conseguire obiettivi nazionali strategici, sia a carattere irredentistico sia a carattere nazionalistico e imperialistico, giustappunto come grande potenza nel contesto europeo, al pari di Francia e Inghilterra.

A questo punto mi sia consentita una piccola digressione! La guerra che iniziava il 10 giugno 1940 – con tutto il suo imponente mix rivendicativo che tendeva ad accaparrarsi Malta e la Corsica (aspirazioni irredentistiche), Gibilterra e il controllo del Mediterraneo in mano inglesi (aspirazioni nazionalistiche), Gibuti e Suez, con mire anche sulla Tunisia (ma non erano in parte quelle stesse aspirazioni colonialistiche successive al Congresso di Berlino del 1878?) – non era pur essa in chiave irredentistica di ricomposizione del territorio nazionale, di sicurezza esterna nonché di consolidamento dell’impero coloniale a spese di Francia e Inghilterra? Allora perché quella guerra non dovrebbe essere considerata a pieno titolo, ancora di più e meglio della Prima, come la “Quinta guerra d’indipendenza”? Insomma, non è possibile opporre un aprioristico rifiuto concettuale a siffatta tesi ove si consideri l’armonico e compatto filone risorgimentale e post-risorgimentale sol perché in ossequio alla vulgata l’idea potrebbe apparire ripugnante! D’altra parte lo storico non è titolato ad addossarsi una specie di veste sacerdotale come un giudice del tempo, o meglio, come affermava lo storico Marc Bloch, “un giudice degli inferi incaricato di assegnare premi e punizioni agli eroi morti”!

Certamente la Prima guerra mondiale, definita “la Madre di tutte le guerre”, in quanto rappresentò la nascita della moderna guerra totalitaria, fu una sovrapposizione dei conflitti in cui ogni potenza combatteva per un suo obiettivo particolare o aveva un conto da regolare e fu il risultato dell’automatismo delle grandi alleanze – la austro-tedesca, la franco-russa e la franco-inglese – ma anche dell’apparizione di due nuove potenze nella seconda metà dell’Ottocento, cioè l’Italia nel 1861 e soprattutto la Germania nel 1870, ciò che aveva alterato gli equilibri in Europa. Ma lungi dal voler ripercorrere i fatti di guerra, al fine di pervenire ad un coerente quadro interpretativo in cui collocare anche il mito del Milite Ignoto, val la pena di svolgere alcune ulteriori considerazioni che avranno pesanti riflessi sullo sviluppo degli avvenimenti successivi poiché certamente si trattava di un conflitto che metteva in crisi la società italiana. Una crisi che veniva a concretizzarsi già nella dicotomia tra neutralismo, che trovava suo terreno fertile nel pacifismo, nell’internazionalismo e l’antimilitarismo, vale a dire nell’eredità giusnaturalistica del socialismo, e interventismo, in cui dominavano stati d’animo e aspirazioni diverse, quali ampliamento di obiettivi di politica estera, politiche di potenza, liberazione terre irredente, ecc., ma anche fermenti irrazionalistici, volontaristici ed anche decadentistici: comunque un coacervo di valori empirici che, in un modo o nell’altro, assegnavano in ogni caso un posto privilegiato al concetto di patria.

Interventisti sono il Governo, allora presieduto da Antonio Salandra, Luigi Albertini, i socialisti riformisti (Leonida Bissolati e Gaetano Salvemini), i quali intendono affermare il principio di nazionalità sulle rovine dei due imperi autoritari, i nazionalisti, Mussolini, il quale, abbandonato il partito socialista si propone di realizzare un suo disegno rivoluzionario, una parte del mondo cattolico e un’ampia fascia della borghesia benpensante, animate da un generico ideale patriottico, ora rafforzato dal progetto di ricongiungimento alla patria delle terre irredente. Di certo, nei fermenti irrazionalistici veniva a coagularsi in maniera indistinta la prima grande rivolta populista contro le istituzioni liberali, così come si erano venute formando e consolidando dal 1871 al 1915, un’avversione per la così detta “Italietta” e per l’uomo che di quest’Italia era il rappresentante, Giovanni Giolitti. In siffatte aspirazioni emergeva un primato del fare o un dissolvimento del pensiero nell’azione, contro il quale, per esempio, Benedetto Croce reagiva. Infatti vedeva simboleggiato questo irrazionalismo attivistico soprattutto in Gabriele D’Annunzio e lo riduceva ad un momento del decadentismo europeo, un decadentismo che dalla sfera estetica passava direttamente nella vita morale, instaurando così una confusa brama del nuovo.

Il mito della guerra si fondava dunque su vari elementi: patriottismo, ricerca di uno scopo nella vita, amore di avventura e ideali di virilità, tutti fattori che segnavano lo spirito guerriero dei giovani volontari, in un clima di movimenti e correnti in campo artistico e letterario che non mancavano di sottolineare il mutamento a cui si stava assistendo. Tra essi spiccava il Futurismo, il quale, esaltando una virilità militare che glorificava la conquista e la guerra e sostituendo il movimento violento all’immobilità del pensiero, denotava tutti gli aspetti della guerra in modo positivo. Proprio l’esaltazione della guerra, come desiderio ardente dello straordinario, divenne una decisa forma di opposizione ad una società pietrificata. Tutti questi sentimenti dei futuristi finirono dunque per incanalarsi nel nazionalismo. La figura idealizzata del soldato comune divenne una componente essenziale alla creazione del mito di un uomo nuovo che avrebbe redento la nazione, un mito che confluiva in quello dello Stato nuovo, in un processo di formazione di una coscienza politica estesa che può definirsi come “radicalismodi tradizione mazziniana.

In definitiva, l’occasione dell’evento bellico segnava il fondamentale passaggio dall’idea all’azione nella prospettiva dello Stato nuovo, ereditate e poi fatte proprie dal movimento fascista. Come afferma Emilio Gentile, il fascismo fu, “un movimento collettivo di giovani che si erano formati nella brutalizzante esperienza della guerra che assimilò i temi del radicalismo nazionale integrandoli con i miti dell’interventismo, del trincerismo e del combattentismo”. Molti alti ufficiali, persino generali, avevano il merito di stare a stretto contatto con i soldati, di trovarsi con loro in trincea, di incoraggiare gli uomini e di fare in modo che fossero evitate inutili perdite. Il generale veniva dunque innalzato a mito e la prima linea diventava il punto di contato tra il soldato-massa e il generale-eroe. Appunto in questo modo l’eroismo, amplificato, diventava mito. In tale ottica, generalizzando, l’esaltazione della guerra, di quella guerra, in cui spesso viene ad essere superato quel flebile confine che separa gli obblighi del soldato dai gesti di eroismo, diventa essa stessa esperienza caratterizzante e formativa per le generazioni e la patria future. In siffatto quadro, ogni gesto di sacro dovere supera qualsiasi valore e ogni soldato della Prima guerra mondiale morto per la patria diventa un vero eroe. Cosicché mito ed eroismo finirono per confluire in unico processo edificatore, quasi purificatore, per il popolo e per la politica italiana, un processo teso alla costruzione di un ideale supremo: un percorso politicizzato, basato su ideali come Patria, Nazione e Stato, a cui si affiancò un processo morale che ebbe come elemento unificante l’esempio supremo incarnato da soldati e condottieri della guerra

È in questo contesto quasi “mistico”, mitico ed eroico assieme, che si colloca il mito del Milite Ignoto, un semplice militare italiano caduto sul fronte della Grande guerra e sepolto sotto la statua della dea Roma all’Altare della Patria al Vittoriano. La tomba del Milite Ignoto simboleggia tutti i caduti e i dispersi in guerra italiani ed è scenario ogni anno di omaggio da parte della massima carica dello Stato assieme ad altre autorità della deposizione di una corona di alloro in loro ricordo. La sua inaugurazione solenne avvenne il 4 novembre 1921, con la traslazione da Aquileia dei resti di un soldato sconosciuto, dopo un viaggio in un treno speciale che attraversò varie città italiane.

Di certo, i traumi, le fratture che la nostra storia ha conosciuto dalla Grande guerra ad oggi sono stati troppi per mantenere un ininterrotto percorso identitario. Innanzitutto il trauma di un’altra guerra mondiale a distanza di venticinque anni dalla prima, a seguito della quale, dopo il 1943-45, i meccanismi di legittimazione, i vincoli simbolici e ideologici che duravano dal 1861 ebbero per lo più a dissolversi. Allora qualcosa di simile alla morte si è verificato poiché una Patria senz’altro morì. Morì il patriottismo della Nazione, sostituito dal patriottismo di partito o dal patriottismo di classe come l’unico vincolo della comunità politica nazionale. Caduto nella polvere, assieme al fascismo, il concetto stesso di nazione, la legittimazione democratica, dunque, non poteva che provenire se non dai partiti, soprattutto quelli più fortemente ideologizzati. Un altro grande momento di rottura che separa enormemente l’Italia attuale dalla Grande guerra è stato l’avvento di ordinamenti politici di tipo democratico così come sanciti dalla Costituzione attuale, pur essa nata tra equivoci e contraddizioni profonde, una rivoluzione culturale che ha definitivamente rimosso, al di là di patetiche formali rappresentazioni di facciata, l’identità sociale e culturale della vecchia Italia che combatté la Grande guerra.

È proprio la rottura del rapporto storico con lo Stato unitario in conseguenza della sconfitta del ’40-45 insieme all’avvento della democrazia repubblicana, dunque, che hanno reso l’odierna identità italiana qualcosa di difficilmente comparabile con quella dell’Italia della Grande guerra, che in tal modo non costituisce più il suo piedistallo emotivo e mitologico. Insomma, in Italia abortì, a differenza di altre nazioni più coese anche ideologicamente, il passaggio cruciale tra liberalismo e liberaldemocrazia che il conflitto mondiale aveva messo dappertutto all’ordine del giorno, cosicché l’eclissi del pensiero liberale rimane ancora oggi uno smacco culturale e la causa fondamentale della irrisolta e irrisolvibile crisi dell’Italia repubblicana. Con siffatti presupposti, sicuramente la Nazione è morta nel cuore degli italiani, è morta l’idea stessa di Nazione e con essa anche quella di Patria. Una nazione incompiuta, una nazione mancata, uno Stato-non nazione, un Paese che, per le sue inadeguatezze, non è riuscito a farsi nazione e che sconta ancora oggi le sue tradizionali lacerazioni: una divisività che viene da lontano, dagli antefatti stessi della Grande guerra, una divisività che, oltre a riferirsi ad una dimensione ideologico-politica, tende a presentarsi quasi come sistemica, strutturale, a carattere antropologico e culturale e perfino morale. Un Paese, dunque, con un colossale difetto di coscienza politica, un Paese caratterizzato dalla “lontananza” del popolo dallo Stato, un Paese in cui è troppo labile, se non proprio inesistente, il legame di appartenenza del popolo verso una ancora “mal conosciuta Patria”. Un popolo a cui ben si attaglia l’affermazione gobettiana “Il nostro vero dramma consiste nel fatto che non possiamo essere un piccolo popolo e non sappiamo essere un grande popolo”. Mi sia solo consentito di aggiungere che non lo siamo stati quando avremmo potuto esserlo, ora non possiamo più esserlo nel nostro ineluttabile declino di popolo e di nazione.

In tema di “unità-disunità” nazionale s’impone a questo punto qualche ulteriore riflessione che, senza “arrières pensée”, riposizioni più correttamente, in termini concettuali, il ruolo della Monarchia sabauda in un possibile processo coesivo nazionale. In altri termini, avrebbe potuto questa, ove fosse rimasta al timone istituzionale del Paese, evitare lo sfaldamento dello Stato in quanto titolare della custodia dell’unità e dell’unicità dell’autorità statale al di là e al di sopra dei mutamenti di governo e di indirizzo politico, così come del resto durante il regime aveva comunque rappresentato la continuità storica rimanendo la garante della nazione? In altri termini, avrebbe potuto la Corona costituire un argine al fenomeno di ideologizzazione e frammentazione partitica di una “stracciata” Repubblica tirata da ogni dove – una Repubblica che non affonda le sue radici né nel Risorgimento né nella Grande guerra bensì di qualcos’altro di estremamente divisivo – e così continuare a fungere da fondamento di una conservata identità unitaria degli italiani? È certamente più che lecito dubitarne, ma non è legittimo non chiederselo almeno! E profondamente vero comunque che quell’acquisto dell’unità intorno alla Patria italiana, che, superando la disperazione di Caporetto, si fonda sulla resistenza sul Grappa e sul Piave fino alla vittoria, è andato del tutto perduto, cosicché la “morte della Patria” in questa striminzita Repubblica – una Repubblica con la sua strana democrazia, sulla quale è scesa una evanescente ombra lunatica, in cui anche i caduti sono diventati solo stracci senza memoria ingoiati dall’oblio – è rimasta la grande questione irrisolta del nostro vivere collettivo. Per uscire dall’ipocrisia di un ambiguo imperativo celebrativo finalizzato solo alla osservanza di un surrettizio piedistallo emotivo di massa e di una immaginaria articolata mitologia della nazione, questa Repubblica, fondata su ben altra mitologia, per dovere di coerenza, bene farebbe, quindi, a espungere dal novero di anniversari e ricorrenze (del resto già depennata come giornata festiva) quella del 4 novembre! Si chiude così un loop, tragico e grottesco allo stesso tempo, una riflessione a struttura circolare, così come nel film Pulp fiction di Quentin Tarantino, con l’inizio di questo tragico excursus che si ricongiunge alla sua fine! Una pericolosa deriva ed una tangibile prospettiva di una moderna e irreversibile disunità nazionale, a distanza di oltre un secolo e mezzo dal compimento della sua unità politica e dopo avere combattuto ben cinque guerre d’indipendenza: sono trascorsi cosi, in modo deteriore e come se nulla fosse avvenuto, altri ottant’anni dall’ultima di esse.

Aggiornato il 04 gennaio 2022 alle ore 11:52