Tra pandemia e palude parlamentare

Che il sistema politico-istituzionale del nostro Paese si sia da tempo avvitato in una spirale elicoidale al ribasso, lesiva di ogni efficace forma di rappresentanza politica di interessi generali non è una novità né, a ben valutare, una singolarità del nostro regime politico, che da quando ha tentato di demarrare dalla forma di governo parlamentare con logorato sistema di repubblica dei partiti, non solo non è approdata ad alcuna altra stabile soluzione organizzativa, ma ha assistito a lento inesorabile progressivo sfarinamento del tessuto istituzionale e decadimento di qualità delle performances degli attori.

Simile perdurante percorso involutivo, si situa e purtroppo è in certo senso in linea, con la tendenza affermata nelle democrazie occidentali, nota – secondo la felice locuzione coniata dal socio-politologo britannico Colin Crouch – quale postdemocrazia intesa come la parabola discendente in cui mentre gli assetti democratici sopravvivono e sembrano prosperare nella forma “l’energia reale del sistema politico è sempre più nelle mani di una élite ristretta di politici e rappresentanti del mondo imprenditoriale, che condiziona l’agenda degli organi decisionali”; succube di siffatta impostazione oligarchica, il regime politico – a prescindere dalla categorizzazione formale delle forme di governa, cara agli studiosi di diritto costituzionale comparato – imbocca una strada che inesorabilmente conduce all’ulteriore indebolimento della capacità critica di “cittadini e cittadine di influenzare le decisioni, minando l’uguaglianza e la sovranità popolare”.

Il gruppo misto a Palazzo Madama, da inizio legislatura ha ben 47 senatori, mentre a Montecitorio i parlamentari sono 66; in tutto, sino all’ultimo arruolato senatore Leonardo Grimoni, ben 113 parlamentari che costituiscono la quinta forza nei due emicicli, con un peso numericamente prossimo a quello del Pd. Ove si consideri che il Pd del segretario Enrico Letta, autoproclamatosi guida della partecipazione domestica al processo di integrazione europea tutt’ora in fieri e formazione politica egemone del centrosinistra (area a cui hanno fatto diretto riferimento tutti i presidenti della seconda repubblica, dal levantino Oscar Luigi Scalfaro in poi), rivendicante la pretesa di Partito nazionale a vocazione maggioritaria, si coglie quanto l’impatto politico-costituzionale dei peones della Palude sia destinato ad influenzare il prossimo scrutinio presidenziale. A fronte di un PD ridotto ai giochini di sottopotere ed accordi maldestri (vedasi l’abbraccio mortale col moribondo se non agonizzante M5s, per non solo il continuo gaspillage di parlamentari, bensì per lo smarrimento di qualsivoglia visione politica dei vertici istituzionali, a prescindere dai velleitari tentativi di frange del tutto minoritarie impersonate da Alessandro Di Battista, ex ministra Barbara Lezzi.

Il maldestro tentativo di designare a elezione suppletive nel seggio collegio Roma 1, lasciato libero dall’ex ministro Gualtieri, divenuto sindaco capitolino, il premier trasformista detronizzato Giuseppe Conte, miseramente fallito sotto le bordate unisono e del fuoco incrociato di Carlo Calenda e Matteo Renzi, mai apparsi così coesi e determinati; last but not least, ultima designazione delle nomine Rai in cui all’avvocato del popolo, il senatore semplice toscana ha inteso riservare la poltrona di Rai Gulp, con ciò ponendo pietra miliare sulla via del tramonto della resistibile leadership politica pentastellata da parte del non eletto professore di diritto civile in Ateneo fiorentino.

Il gruppo misto rappresenta ad ogni effetto un’incognita prevedibile, al momento di esprimere preferenze nello scrutinio presidenziale; pur sottacendo che l’unica formazione ricompresa con chiara fisionomia politica è quella dei dinosauri di Leu (i senatori Piero Grasso, Loredana De Pretis, Vasco Errani), di appena tre membri, pur secondo il brocardo invalso nella prima repubblica secondo cui i voti si pesano più che contarsi, rischia l’irrilevanza. Ebbene il Gruppo Misto che si pone come crocevia strategico, non è sorretto da un’anima univoca, ad esclusione del malcelato intento di portare la legislatura al compimento naturale così assicurandosi la permanenza nella funzione con fruizione di vari privilegi e prerogative.

Il termine Palude traduce i vocaboli francesi “La Plaine” o le “Marais”, da cui i termini più comunemente usati Pianura e Palude, nome dato al gruppo più moderato, ma più numeroso (circa 400 deputati) della Convenzione nazionale durante il periodo della Rivoluzione francese. Essi non appartenevano né alla sinistra della Montagna, né alla destra Girondina, anche se con l’altalenante sostegno ai primi e poi ai loro avversari determinarono gli eventi del 1793 (formazione del Comitato di salute pubblica) e del 1794 (colpo di stato di Termidoro e fine del terrore). Seppur paradigmatico il richiamo al nome storico di Palude, evidenzia come il Gruppo Misto assurga ad icona della presente legislatura contrassegnata dall’ascesa, come partito di maggioranza relativa, del movimento pentastellato-formazione politica di chiara vocazione populistica e demagogica, di cui in tempi non sospetti Mauro Mellini colse la diretta derivazione dal qualunquismo storico di Giannini (cfr. Gli arrabbiati d’Italia, storia di una democrazia dei malumori, Bonfirraro 2013) e dal suo inarrestabile declino che ha portato il progressivo sconquasso delle istituzioni, culminato nel regime emergenziale imposto prima e suggerito poi dalla pandemia da Covid-19.

La Palude con la sua gelatinosa consistenza e rigurgiti melmosi (ad esempio il tentativo di reperire pattuglia di responsabili perseguito da Sandra Lonardo e Bruno Tabacci, smaliziati democristiani della vecchia guardia), è destinata a proiettare le sue ombre e i suoi miasmi in vista dell’ormai imminente elezione presidenziale, essendo già in corso la rassegna delle candidature papabili nello scrutinio dell’elezione del capo dello stato (termine mandato 5 febbraio 2022), nonché sul rinsaldamento o sfaldamento delle alleanze di governo, non appena insediatosi al colle del Quirinale il successore di Sergio Mattarella.

Infatti la prosecuzione del premierato di Super Mario, eurocrate con il massimo accreditamento internazionale, con maggioranza a geografia variabile dagli incerti profili non solo sul versante destro (ove unica forza d’opposizione è Fdi), ma anche soprattutto nel perno centrista e nel versante sinistro, appare destinato a scardinare irrimediabilmente il già precario sistema dei partiti, per come sopravvissuto al camaleontico trasformismo del premierato di Giuseppe Conte (giugno 2018-febbraio 2021).

La Palude nostrana assurge a qualcosa di più della metafora dello stato moribondo della nostra istituzione parlamentare, espropriata in ogni sua funzione essenziale, sia di legiferazione ordinaria, conversione di decreti legge, articolazione di principi e criteri direttivi per la legislazione delegata, persino ristretta nella sessione di bilancio; in quanto il parlamento non è più nemmeno organo di teatro di manifestazione e rappresentazione di decisione prese da altra sede (Massimo Severo Giannini, I pubblici poteri, Bologna 1985), esso si è rilevato inetto ed incapace all’esercizio di qualsivoglia controllo politico, ad esempio i casi dell’operato dei ministri Speranza e Lamorgese, restio ad impartire direttive cogenti al governo e adesso infine in veste di organo straordinario permanente, quale il Parlamento in seduta comune (articolo 85 della Costituzione), del tutto inibito il più prestigioso segnale di indirizzo politico, che si concretizza al momento dell’elezione del presidente della Repubblica nella libera opzione per un capo dello Stato rappresentativo dell’unitarietà del Paese e della coesione degli organi costituzionale.

È noto che nella consultazione per la suprema magistratura repubblicana non ci sono in senso tecnico candidati, ma solo persone fisiche eleggibili: Ogni cittadino italiano che abbia compiuto 50 anni e che goda di diritti civili e politici può ambire ad essere eletto capo dello stato, a norma dell’articolo 94 della Costituzione.

Storicamente però i Presidenti della Repubblica eletti sono risultati quasi esclusivamente politici, di lunga militanza nel sistema dei partiti: ben 11 sul totale di 12, con l’unica eccezione di Carlo Azzeglio Ciampi, già premier nel biennio 1993-94 e ministro del tesoro dal 1996 al 1999, nei governi a guida di Romano Prodi e Massimo D’Alema. Limitare a politici di lungo corso e comprovato rango, le eleggibilità alla carica di presidente della Repubblica, è agevolmente comprensibile alla stregua dei seguenti convergenti profili. Innanzitutto è una apprezzabile manifestazione di rispetto della volontà popolare, perché i politici in questione sono dei parlamentari sottopostisi reiteratamente al vaglio elettorale e quindi liberamente voluti dai cittadini, quali propri rappresentanti a fini generali.

 In secondo luogo era un’auto espressione di stima e fiducia della classe politica, la quale si mostrava convinta della reperibilità al proprio interno di esponenti validi, in grado di sostenere l’alta responsabilità della suprema magistratura repubblicana. Non a caso il movimento cinque stelle in occasione del passato scrutinio costituzionale, oltre a far circolare slogan populisti direttamente discendenti dalle elucubrazioni del capo comico genovese (apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno), la formazione pentastellata ha proposto dei nominativi esulanti in tutto o in parte dalla classe politica ordinaria (la giornalista investigativa Milena Gabanelli, e il già garante privacy Stefano Rodotà). Nelle elezioni succedutesi dalla disegnazione del capo provvisorio dello stato Enrico de Nicola (01/05/1946), in attesa di promulgazione della costituzione 1948, i grandi elettori hanno sempre tenuto nel massimo conto la valutazione del requisito di “Seniorità” delle persone, intendendosi quel complesso di virtù conseguibili dai bravi politici solo all’esito di una lunga militanza in fase di piena maturità. Esso si sostanzia in saggezza, equilibrio, conoscenza degli uomini, esperienza del funzionamento dell’apparato statale, sensibilità sociale, capacità di comunicazione e di immedesimazione empatica.

Tale complesso di loti non era richiesto per un virtuosismo fine a sé stesso, bensì a garanzia affidabile contro il rischio dell’abuso dei grandi poteri affidategli dall’ordinamento e destinati ad accrescersi notevolmente nei frequenti periodi di crisi.

Rebus sic santibus, l’esistenza di una vasta Palude è fattore deprimente della libera estrinsecazione della sovranità nazionale, dapprima nel senso di depotenziare di effettività le scelte del corpo elettorale in funzione eligente, al momento delle consultazione politica generale, di rappresentanti che si presentano in liste di partito o schieramenti riconducibili a ben determinate aree politiche, e non già ad una indistinta “Palude di mezzo”. Conseguentemente tale modus operandi inficia irrimediabilmente la natura elettivo-rappresentativa, sia pure grande note procedimento di secondo grado attraverso i grandi elettori del capo dello Stato quale istituzione repubblicana. Per tentare un paragone non troppo ardito in chiave comparativa è come se i grandi elettori nel Partito democratico (asinello) e di quello repubblicano (elefantino), dopo aver avuto la designazione nel super Tuesday di inizio novembre, optassero non di eleggere il candidato alla presidenza federale Usa che ha ricevuto la nomination dal partito di appartenenza, bensì di confluire in larga parte in una terza formazione più o meno indipendente da quelle di provenienza che se non in grado di esprimere un altro terzo rispetto ai primi geni contendenti, di certo capace di condizionarne il profondità la scelta e il susseguente indirizzo politico.

È indubbio che nella democrazia costituzionale più antica e stabile del mondo occidentale, qualcuno crederebbe all’attentato alle libertà politiche sancite dalla costituzione federale senza alcuna necessità di ricorrere allo sciamano di turno. Orbene la Palude dalle aule parlamentari sembra essersi espansa ai mezzi di comunicazione di massa e ai social network in cui la miopia, l’approssimazione, l’ipocrisia, attanagliano la classe degli opinionisti di professione, giornalisti di regime o para-regime, commentatori politici più o meno invischiati nella melma e studiosi-editorialisti à la page, i quali tutti, per ignoranza o malafede non si accorgono o fingono di non avvedersi sinora del dato di mente che l’organo elettivo del capo dello Stato – il Parlamento in seduta comune composto dai membri di Camera e Senato, composti dai delegati regionali (1008 grandi elettori) – è intrinsecamente delegittimato, per difetto di congrua rappresentanza politica del popolo sovrano e quindi poiché in sostanza non rispettoso del mandato ricevuto dall’elettorato, bensì in altre faccende personalistiche imbrigliato, del tutto inidoneo nell’attuale composizione ad esprimere un’autorevole capo dello Stato, all’altezza della sfida dei tempi, il tutto pur volendo concedere la massima estensione a quel divieto di mandato imperativo sovente invocato a sproposito e per fine altro da quello inteso dai costituenti (non quello di assicurare automatica irresponsabilità ai fruitori del meccanismo cosiddetto delle “porte girevoli”).

Non possiamo non citare l’esempio più eclatante, quel primatista assoluto di Pierferdinando Casini, il quale non solo è approdato in meno di 48 ore dalla proclamazione dell’elezione al Senato a gruppo misto, battendo ogni record, ma soprattutto perché si fregia del titolo di Biden italiano, per essere il parlamentare anziano con più legislature alle spalle ed ora da seguace veritiero del senatore del Delaware e 46 presidente Usa, non lesiana affatto di cimentarsi nella corsa al Quirinale, tenendo un’immagine di basso profilo, conscio che diventa capo dello Stato non chi ha più voti, ma meno veti. Casini, di cui il compianto Francesco Cossiga aveva con nitore individuato in tempi non sospetti, il principale talento nella “vocazione del satellite”, rappresenta il “Giano Bifronte” del regime politico italiano ed ha concrete chances di diventare l’emblematico 13esimo presidente della Repubblica italiana, specie che sabato scorso Renzi in chiusura kermesse di Atreju ha individuato nello schieramento di centro destra il king maker presidenziale. Evviva la Repubblica della palude, Evviva la mediocrità istituzionalizzata, nel Paese ove la situazione resta sempre incredibilmente grave, ma mai dannatamente seria, parafrasando il noto aforisma del pescarese adottivo Ennio Flaiano.

(*) Avvocato cassazionista, collaboratore stabilizzato in diritto costituzionale dell’Università Roma III

Aggiornato il 16 dicembre 2021 alle ore 16:47