Capitolo terzo
I problemi reali della città
I temi della campagna elettorale per l’elezione del nuovo sindaco di Roma sembrano straordinariamente omogenei, la sensazione è che tutti, o almeno i quattro candidati che hanno maggiore visibilità mediatica, siano disperatamente alla ricerca di uno slogan o di una idea così originale da portarli al massimo del consenso. Ci vediamo proposte idee e argomentazioni per lo più riciclate dalle precedenti consultazioni senza riuscire a proporre un progetto organico per la città. Si dovrebbe partire dalla realtà di tutti i giorni e fare tesoro delle esperienze dei sindaci precedenti, da quei 150 anni di lavoro della macchina comunale che hanno costruito la Roma di oggi. Se pensiamo che gli abitanti delle case distrutte per realizzare Via della Conciliazione e Via dei Fori Imperiali furono spostati negli Anni Venti in quelle “popolari” della Garbatella, oggi case invidiabili per qualità e valore commerciale, o che i nostri ragazzi utilizzano la città universitaria progettata dall’architetto Piacentini negli Anni Trenta si deve ammettere che non ci potrà mai essere una soluzione uniforme per l’intera città ma un progetto d’insieme sì. Quindi per un sindaco il primo passo dovrà essere quello di cercare e magari pretendere la collaborazione dei presidenti di Municipio che meglio conoscono la situazione specifica di ciascun territorio.
Ci sono però problemi comuni come gli effetti che tutti vediamo dopo le chiusure per il lungo periodo di pandemia. Ci può essere di aiuto chi a Roma ha affrontato periodi simili come quello dei cosiddetti Anni di piombo quando la sera la gente preferiva rimanere in casa e se usciva si muoveva con molta prudenza. È bene ricordare che in una valutazione del 1979 si contavano 269 organizzazioni terroristiche attive e dal 1969 al 1977, anno in cui il ministro dell’Interno Francesco Cossiga fa entrare a Bologna i cingolati dell’esercito, ci sono stati oltre 4.500 attentati. La diffidenza verso l’altro dei cittadini romani e il loro comprensibile istintivo, prudente autoisolamento (il primo lockdown della nostra storia recente) scompare all’improvviso il 25 agosto 1977 non per un solitario ragazzo benestante che suona la chitarra da un attico a Piazza Navona ma grazie a un assessore alla Cultura che porta il cinema e la cultura dell’effimero prima nella Basilica di Massenzio e in seguito al Circo Massimo segnando un’epoca: Renato Nicolini.
Oggi non abbiamo un nuovo Nicolini. Ed è chiaro a tutti che le difficoltà della convivenza, dal condominio al traffico, dall’affollamento sui mezzi pubblici allo stato di abbandono degli anziani, dalla microcriminalità alla violenza della movida cittadina, dai maltrattamenti dei disabili ai sassi lanciati contro gli autobus, non si risolvono con delle proiezioni gratuite in una piazza e nemmeno con forme di repressione. C’è bisogno di capire che esiste un’altra Roma, moderna, rapida e concreta. Sta di fatto però che i punti di aggregazione non sono più le piazze e le comitive ma i centri commerciali, possibilmente forniti di connessione wi-fi gratuita e aria condizionata. Sicuramente stiamo parlando di una popolazione che per sopravvivere si identifica in gruppi come i runner, quelli che corrono dappertutto, come le due tifoserie principali, i ciclisti, gli skaters cioè quelli che si divertono con gli skatebord, come gli sportivi in genere o i piccoli gruppi di persone che si prendono cura dei giardini dove vanno a giocare i bambini.
Se davvero la politica vuole entrare in quello che Julio Cortázar chiamava “Il gioco del mondo” c’è bisogno di capire come la cittadinanza si muove e individuare stili di vita fornendo la logistica adatta ad affermarli e a farli sentire orgogliosi di essere e vivere a Roma. La percezione comune spesso non corrisponde alla realtà ma il servizio alla cittadinanza si concretizza nei fatti e non nei massimi sistemi di una ideologia.
(*) Qui per leggere il primo capitolo
(**) Qui per leggere il secondo capitolo
Aggiornato il 17 settembre 2021 alle ore 13:42