Magistratura: ordine indipendente o contropotere?

La magistratura: ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere dello Stato, ovvero contropotere degli altri poteri? – La magistratura italiana ha svolto nella storia della Repubblica il compito essenziale di tutela e di promozione dello Stato di diritto nella piena indipendenza dello svolgimento delle sue alte funzioni in conformità all’articolo 104, comma 1 della Costituzione. Oltre alla sua funzione tipica, la magistratura nel suo insieme ha assunto spesso anche compiti di supplenza rispetto agli altri poteri dello Stato, dando un impulso decisivo al contrasto a tre forme di criminalità rovinose per la pace sociale: la criminalità terroristica, la criminalità mafiosa e la criminalità economico-politica, incentrata sulla corruzione e sul mercimonio dei poteri pubblici nell’interesse di quelli privati. All’accrescimento dei propri poteri, determinato soprattutto dall’importanza politica dei ruoli di supplenza, assunti spesso in assenza di un’adeguata iniziativa degli altri poteri dello Stato, si è anche accompagnata, a partire almeno dai primi Anni Settanta del secolo scorso, una tendenza della magistratura a svolgere un ruolo attivo di interferenza nella vita politica del Paese, sotto la guida dalla parte di essa che si è detta democratica.

Tale tendenza, dapprima rumorosa e fortemente ideologizzata, poi più raffinata sul piano giuridico e meno schierata nel collateralismo rispetto a soggetti politici determinati, ha talora provocato lo straripamento del potere della magistratura oltre il perimetro costituzionale circoscritto dal compito di tutela dei valori costituzionali nell’ambito della stretta soggezione alla legge (articolo 101, comma 2 della Costituzione). Questo processo ha favorito il consolidarsi, all’interno della magistratura, dell’influenza della corrente progressista, che vede nella funzione giudiziaria più un contropotere, sempre alla ricerca autonoma di nuovi equilibri in linea con le istanze di alcuni settori della società, che non un ordine rivolto anzitutto e soprattutto alla garanzia della pace sociale. Il quadro costituzionale prevede invero che le scelte politiche, talora divisive, talora compromissorie, comunque caratterizzate da un forte significato valoriale, vadano lasciate, nel rispetto del disegno costituzionale, al Parlamento. Involuzione di una parte della magistratura, soprattutto di alcuni settori della magistratura inquirente. – L’involuzione verso una politicizzazione indebita della magistratura si è avvalsa del sistema delle correnti interne all’istituzione. Esse rappresentano, da un certo punto di vista, l’espressione di un pluralismo culturale apprezzabile. Sul nucleo di tale pluralismo si è innestato però un plesso di interessi che rischiano di trasformare la magistratura in una casta. Il termine è forte, forse connotato da una vis polemica eccessiva. Tuttavia non sembra inadeguato a descrivere un ambiente istituzionale – quello del Consiglio superiore della magistratura – nel quale le correnti storiche tendono a trasformarsi in cordate di potere in vista della nomina dei propri esponenti nei posti direttivi e semi-direttivi della magistratura.

In questo processo la connotazione politica delle correnti non si scolora del tutto, anche se emergono fenomeni di tipo trasformistico, motivati dagli interessi individuali all’accesso alle cariche più importanti. Ciò non toglie che molte scelte del Csm lascino evidente la traccia di forzature politico-ideologiche, consumate da maggioranze che si esibiscono in strategie spregiudicate che in nulla si distinguono da quelle di tipo partitico. L’influenza politica è particolarmente evidente nelle nomine concernenti i posti apicali delle Procure della Repubblica. È questo un segno inequivoco del sempre maggiore distaccarsi della magistratura inquirente da quella giudicante. La spiegazione di ciò è relativamente semplice. Mentre la regolazione puntuale dei poteri discrezionali consente con più facilità ai giudici di mantenersi nel solco della soggezione alla legge, l’estrema latitudine dei poteri di indagine che il codice del 1989 concede all’ufficio del pubblico ministero, nonché la totale assenza di controlli sull’esercizio dell’attività di indagine rendono particolarmente appetibili, talora in una logica autoreferenziale di potere per il potere, i ruoli di comando nelle Procure.

In effetti, gli scontri più torbidi e astiosi, di cui parlano le cronache, concernono l’assegnazione dei posti apicali nelle Procure: il loro controllo, infatti, consente, soprattutto nelle grandi sedi ove vengono in considerazione interessi giganteschi di carattere finanziario ed economico, di gestire un potere immenso, che è pari o superiore a quello degli organi attivi del governo del Paese. Ove accada, poi, che le lotte per le posizioni apicali si risolvano tramite la mediazione degli interessi politico-ideologici gestiti dalle correnti interne alla magistratura, diventa forte il rischio che politica e giustizia si confondano, con la conseguente vanificazione della separazione dei poteri dello Stato, alla cui stregua l’ordine giudiziario deve rimanere estraneo alla gestione attiva degli interessi dello Stato. Le lotte interne alla magistratura, nonché i condizionamenti che derivano dal sistema correntizio e la valenza politica dell’agire di ciascun gruppo associato giustificano l’uso del termine casta per caratterizzare un corpus che rischia di divenire autoreferenziale; poco penetrabile dall’esterno, ma molto proclive a incidere sull’esercizio dei poteri alti dello Stato; eccessivamente preoccupato di consolidare il proprio potere; non alieno dal selezionare arbitrariamente il campo degli interessi oggetto di effettiva tutela; disattento e, in ogni caso, lento nel colpire gli attentati dei propri componenti ai princìpi di lealtà nello svolgimento delle funzioni e, last but not least, non alieno dal perseguire indebitamente determinati settori politico-amministrativi del Paese lasciando che altri settori fruiscano del vantaggio di una certa tolleranza investigativa.

Fenomeni distorsivi che distolgono la magistratura dai suoi compiti istituzionali. – Alcuni fenomeni, perduranti da lungo tempo senza alcuna decisa opposizione, né all’interno né all’esterno del corpus dei magistrati, costituiscono prova del rischio che prevalgano a lungo andare tendenze distorsive del corretto esercizio dei poteri assegnati dalla Costituzione all’ordine giudiziario. Costituisce in primo luogo un grave segno di confusione tra i poteri dello Stato la circostanza che la magistratura, tramite le nomine compiute dal Csm, si sia appropriata dell’integrale controllo del ministero di Giustizia, introducendo presenze importanti anche in altri ministeri e nelle sedi internazionali delle istituzioni. Il ministro di Giustizia ha una responsabilità politica cruciale in ordine all’attuazione delle istanze di giustizia dell’intero Paese, tanto che la Costituzione gli riconosce la facoltà di “promuovere l’azione disciplinare” nei confronti dei magistrati che vengono meno al loro dovere (all’articolo 107, comma 2 della Costituzione). I poteri del ministro, previsti in funzione della corretta amministrazione della giustizia (non, ovviamente, quanto al merito delle decisioni, bensì quanto alla lealtà, alla diligenza e solerzia nello svolgimento dei compiti istituzionali) sono così vanificati per il fatto che i suoi poteri sono in realtà gestiti da magistrati nominati dal Csm, secondo le logiche correntizie proprie del funzionamento di quest’ultimo.

In secondo luogo, l’ostinata resistenza della magistratura, resa evidente dalla politica del Csm, all’allargamento in termini numerici dei magistrati in servizio, è espressione di una politica chiusa e conservatrice, disattenta a risolvere le urgenze riguardanti l’amministrazione della giustizia. Gli studi politici e sociologici rivelano che un potere, quando intende rafforzarsi a scapito di altri, fa una serrata; si oppone, cioè, al cambiamento, in modo ostruzionistico, procedendo a una cooptazione lenta dei nuovi membri. Da molti decenni il ministro, è solito indire concorsi per nuovi posti di magistrato in numero appena sufficiente a colmare le scoperture per i pensionamenti. Questa situazione si è protratta anche dopo l’abbassamento del limite di età per il termine del servizio, provocando negli ultimi anni un sensibile aumento di carico lavorativo per i consiglieri delle Corti di Appello, non in grado, in sede penale, di smaltire l’enorme afflusso di impugnazioni. È ampiamente noto che il numero dei magistrati ordinari in Italia è comparativamente molto inferiore al numero dei magistrati in servizio negli altri paesi avanzati. Sono altresì ampiamente noti gli estenuanti ritardi nella spedizione degli affari, sia civili che penali. Alle scoperture si è tentato di rimediare con l’utilizzo di magistrati onorari. Questa platea di operatori di rango subordinato, che pure svolgono un servizio essenziale, è rimasta però priva di certezze in termini di status, di stabilità, di copertura assicurativa e previdenziale. L’ingresso a titolo pieno nelle funzioni giudiziarie di questi magistrati, previo un concorso per la verifica della loro preparazione, non provocherebbe alcuna contaminazione della purezza dei magistrati ordinari, bensì favorirebbe un meno faticoso corso della giustizia. Un altro profilo abnorme concerne l’accrescimento progressivo, quantitativo e qualitativo, dei poteri del Csm, divenuto, secondo l’interpretazione che esso dà di se stesso, un vero e proprio organo costituzionale, dotato di competenze ubiquitarie, addirittura di tipo legislativo sub-primario, che si affiancano alle competenze del Parlamento e che oscurano le fonti sub-primarie del Governo.

Selezione arbitraria degli interessi oggetto di effettiva tutela. – In ordine alla selezione arbitraria degli interessi oggetto di effettiva tutela occorre rivolgere una distinta attenzione al settore civile e penale. Il primo ha patito da decenni una cronica sottovalutazione, che ha determinato l’abbandono dell’esigenza della tempestiva gestione degli affari. La lentezza dei procedimenti civili costituisce un attentato alla certezza dei negozi e dei rapporti delle società commerciali, che tracima in una vera e propria negazione di giustizia nei riguardi dei privati che avanzano istanze di portata economica più circoscritta. Questa situazione ha provocato la sfiducia degli investitori internazionali e delle società commerciali di alta intensità economica, che sfuggono al foro italiano stipulando contratti fuori dal Paese ovvero prevedendo fori diversi da quello italiano. L’utenza economicamente più povera rischia di essere espulsa dal circuito della legalità giudiziaria, anche a causa della lievitazione delle spese di giustizia.

La causa principale della lentezza dei procedimenti non è tanto una scarsa proattività dei giudici, quanto una configurazione anomala del sistema, che prevede un numero insufficiente di magistrati e di personale di cancelleria.

Alla celere spedizione degli affari, sempre più complicata per l’aggrovigliarsi delle norme e per la pluralità di fonti normative su cui occorre indagare, occorre porre rimedio con l’incremento significativo dei magistrati e del personale ausiliario addetto, nonché con il controllo di efficacia condotto per via esterna dal ministro della Giustizia, tramite la predisposizione di tabelle e di statistiche per la verifica della produttività degli uffici. Sta di fatto che la magistratura associata, sul piano culturale, e il Consiglio Superiore, su quello istituzionale, sono responsabili per aver sottovalutato la gravità del problema della giustizia civile nella società contemporanea, in particolare per non aver provveduto, d’intesa con il potere esecutivo, a un allargamento adeguato degli organici e a un efficiente funzionamento delle strutture. Diverso, ma non meno preoccupante, è il problema relativo alla selezione arbitraria degli affari nel settore penale. Per apprezzare la gravità della situazione occorre tener conto che la prescrizione opera come scure eliminativa dei reati in una percentuale elevatissima di casi proprio nella fase delle indagini preliminari. La decisione di lasciare che i reati si prescrivano senza che siano svolte indagini va ricondotta ai capi delle Procure. Talora la decisione è conforme ai criteri di priorità fissati in via generale; talora è conseguenza automatica della mancata elaborazione delle accuse gestite secondo le preferenze occasionali dei magistrati sostituti. In un modo o nell’altro avviene una selezione arbitraria delle classi di reati destinati al processo, che confligge con il principio costituzionale di cui all’articolo 112 della Costituzione.

Anche a questo riguardo il rimedio principale sta nell’incremento degli organici delle Procure, tramite l’ingresso di magistrati giovani, operosi, che non trovino disdicevole trattare affari semplici – eppure importanti per i denuncianti e le parti offese – allo scopo di portare a giudizio almeno una parte non minima delle innumerevoli notizie di reato che affollano le segreterie delle Procure. Il problema è di carattere prevalentemente strutturale, ma è anche culturale, giacché prevale tra i ranghi della magistratura inquirente la tendenza a trascurare i problemi della criminalità di strada, che pure cagiona un notevole pregiudizio sociale per il venir meno della fiducia dei cittadini nella magistratura, per dedicarsi a inchieste che vorrebbero essere di alto profilo, ma che frequentemente sfociano in archiviazioni. Gli attuali vice procuratori onorari, una volta inseriti nella pienezza del ruolo, potrebbero rispondere nell’immediato alle esigenze più urgenti della giustizia penale cosiddetta minore. L’abbandono alla prescrizione in sede di indagini preliminari di moltissimi reati favorisce a macchia d’olio, peraltro, il diffondersi dell’impunità per categorie delittuose particolarmente insidiose: in specie, quella dei reati patrimoniali commessi tramite frode, dei reati tributari, dei reati informatici, dei reati colposi minori, delle contravvenzioni alle regole che tutelano la sicurezza del lavoro, generando nella collettività la convinzione di ineffettività del sistema penale, con conseguente incentivo alla consumazione seriale degli illeciti.

L’attivismo delle Procure sul fronte politico-amministrativo. – Su tale fronte l’attivismo delle Procure non si fa mancare l’impiego di considerevoli risorse economiche, impegnando il tempo prezioso – ma necessariamente limitato che ciascun pm ha a disposizione – nel perseguire in modo mirato abusi, reali o presunti, riferibili agli esponenti della classe politico-amministrativa, sia al livello del vertice politico dello Stato, che dell’ordinaria amministrazione degli enti territoriali. In questo tipo di indagini, che non infrequentemente sfociano in assoluzioni o in sentenze di merito contrastanti, su cui la Corte Suprema è chiamata a dirimere, dopo parecchi anni dai fatti, questioni giuridiche complesse, le Procure perseguono più risultati di immagine che effettivi scopi di giustizia. L’esperienza degli ultimi decenni è ricca di esemplificazioni. Ci si limita in questa sede a tre tipi di vicende:

 

1) La criminalizzazione dell’operato dei pubblici amministratori di base, i sindaci, per irregolarità di tipo strettamente amministrativo, che si conclude molto spesso con l’assoluzione degli accusati, ma che non sana il discredito pubblico derivante all’indagato dal processo.

2) La criminalizzazione dell’intera classe politica delle Regioni, avvenuta a partire dal 2011 con la discutibile interpretazione in termini di peculato dell’utilizzo dei fondi che le leggi regionali destinavano espressamente alle spese dei Gruppi consiliari per il loro funzionamento e per le loro iniziative politiche.

3) La criminalizzazione dell’operato del ministro dell’Interno in relazione alla gestione, non condivisa ideologicamente, dell’ardua questione politica dell’immigrazione irregolare.

 

Non è questa la sede per entrare nel merito dei differenti problemi esposti, salvo osservare, con riferimento alla questione dei rimborsi spese dei consiglieri regionali, che per decenni, in tutte le Regioni d’Italia, si era consolidata la prassi – basata su leggi regionali apposite – del finanziamento ai Gruppi consiliari per svolgere iniziative politiche nell’ambito del gruppo politico di appartenenza. Questo sistema a larghe maglie consentiva la commissione di innumerevoli abusi. Il decreto legge del 10 ottobre 2011, n. 174 (convertito in legge 7 dicembre 2012, n. 213) ha posto fine ad essi, prevedendo un’inedita forma di controllo contabile, da parte della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti sui rendiconti stilati annualmente dai Gruppi consiliari regionali. Che, prima della normativa citata, non vi fossero controlli contabili adeguati per impedire abusi, è vero. Ma che ancora oggi, a un decennio di distanza dalla legge del 2012, si stiano celebrando maxi-processi, in sede di merito o di legittimità, allo scopo di verificare se, per esempio, le spese di ristorazione o di cancelleria dei consiglieri fossero legittime ovvero concretizzassero il delitto di peculato, è cosa che pone in dubbio la puntualità dei criteri di priorità relativi all’esercizio dell’azione penale e di funzionalità dell’intero sistema. Piuttosto, le vicende cui si è accennato – che hanno, di recente, indotto i sindaci a richiedere una sorta di “scudo penale” che li protegga dall’invadenza delle Procure nel libero esercizio dell’attività politico-amministrativa – inducono a ritenere che molte iniziative giudiziarie trovino spiegazione nell’intento di tipo corporativo dei titolari dell’azione di rimarcare il proprio ruolo di supremazia rispetto alla politica, lungo un itinerario tutt’altro che congruo rispetto al principio della leale collaborazione tra i poteri dello Stato.

Le condotte anomale di non pochi uffici cruciali: chi valuta e chi trascura i segnali di allarme? – Quanto alla sottovalutazione da parte del Consiglio Superiore di questioni relative alla trattazione degli affari civili e penali, non si possono non rilevare due fatti di estrema pericolosità sociale. Il primo concerne l’assolutamente inadeguata consapevolezza, interna al corpo della magistratura, circa le anomalie di condotta di alcuni – ma non pochi – suoi membri, che si sono rivelate, dopo il protrarsi indisturbato per anni di tali condotte, consistere in veri e propri reati. Il secondo fatto concerne la scarsissima efficacia del sistema delle sanzioni disciplinari. Alcuni episodi giudiziari sono sintomatici di una situazione preoccupante soprattutto in ordine al controllo sull’operato delle Sezioni fallimentari dei tribunali. Anche qui non è in questione il sindacato nel merito dei provvedimenti, bensì il controllo sulla trasparenza, sulla celerità e sull’efficacia delle procedure. Una verifica di carattere statistico dovrebbe poter dire, per esempio, se e quante procedure di Amministrazione straordinaria sono ancora aperte, trascorsi decenni dalla loro apertura; si vi sia stata una congrua rotazione nell’affidamento degli incarichi giudiziari da parte dei tribunali fallimentari; se sia stata efficace per i creditori l’attività dei curatori e degli amministratori giudiziari; se i loro compensi abbiano rispettato i limiti tariffari e i comuni criteri di ragionevolezza. Una verifica di questo genere è tanto più urgente in relazione all’imminente entrata in vigore del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, che vorrebbe risolvere in modo innovativo i problemi giuridici della crisi di impresa, attribuendo ai giudici poteri immensi che incidono sull’andamento stesso dell’economia del Paese. Aprire nuovi impegnativi scenari senza che si sia fatta chiarezza sul passato sembra veramente imprudente.

Un’altra esigenza concerne il controllo sull’operato dei tribunali in materia di prevenzione patrimoniale. Una vicenda inquietante è emersa negli ultimi anni a proposito della gestione del tribunale di Palermo non tanto e non soltanto per le evidenze delittuose emerse a carico del presidente della sezione di prevenzione, ma soprattutto per le contiguità, se non per le connivenze, in cui si sono innestate le condotte illegali. Ora, la prevenzione patrimoniale è un settore dell’attività giudiziaria che incide intensamente sui diritti dei cittadini in tema di proprietà e di libertà di iniziativa economica. Le competenze del tribunale presuppongono attività di indagine stringente e pervadente sotto la guida del pubblico ministero, di competenza della Guardia di Finanza, legittimata a indagare sulle posizioni proprietaristiche e di iniziativa economica, che coinvolgono settori economici di rilievo nazionale. Le decisioni del tribunale hanno poi importanti ripercussioni in ordine alla gestione dei beni e delle imprese da parte di amministratori e di commissari che la stessa autorità giudiziaria ha il compito di nominare. Gli esiti si concludono spesso in pesanti interventi ablatori eseguiti dagli organi amministrativi dello Stato. È indispensabile che l’insieme di queste procedure sia sottoposto a un attento monitoraggio in termini di trasparenza e di efficienza da parte del ministro della Giustizia, eventualmente avvalendosi dei poteri di ispezione che la legge gli conferisce sul funzionamento degli uffici giudiziari. L’esercizio completo di tali poteri ispettivi è necessariamente prodromico a scoprire le anomalie dietro le quali possono nascondersi reati di notevole gravità.

Le carenze del giudizio disciplinare tra pari.– Le carenze del giudizio disciplinare sui magistrati di competenza del Csm sono talmente gravi che occorre rimediare a esse con urgenza. Il punto essenziale è dare attuazione, anche per il giudizio disciplinare, al principio che il procedimento si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale (articolo 111, comma 2 della Costituzione). Il Consiglio Superiore, in qualsiasi composizione esso sia formato per l’esercizio della funzione disciplinare, non presenta le caratteristiche del giudice terzo e imparziale. I suoi componenti, infatti, sono in grandissima parte eletti dai potenziali destinatari del giudizio. Il condizionamento, poi, esercitato sui componenti del Consiglio dal sistema delle correnti rende ancor più aleatorio il rispetto del principio costituzionale del giusto processo. Invece di pensare a una improbabile – se non impossibile – riforma che tolga rilievo alla inafferrabile e composita rete di interessi, culturali e di carriera, in cui si incarna il sistema correntizio, venato da forti radicamenti ideologici, potenzialmente idonei a disancorare il giudizio dalla legalità, occorre conferire al sistema disciplinare un volto conforme al principio dell’articolo 111 della Costituzione. Ciò implica l’attribuzione della competenza disciplinare a un Collegio formato da personalità indipendenti, su nomina di autorità super partes – il presidente della Repubblica, il Primo presidente della Suprema Corte, il presidente del Consiglio nazionale forense – che garantisca una giustizia disciplinare tempestiva, trasparente e non sospettabile di contiguità, dirette e indirette, con gli accusati.

Rilievi conclusivi. – Le vicende recenti – in particolare il caso Palamara e il caso Storari/Procura della Repubblica di Milano – hanno mostrato che il re è nudo. Il grande fasto del Csm, celebrato fino al cielo per il suo notevole potere, è rovinosamente crollato per terra, rivelando molti vizi che hanno minato dall’interno, e non dall’esterno, l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Se, per un verso, le rivelazioni contenute nel libro di Palamara fanno luce sulle lotte per la conquista dei posti di Procuratore capo nelle varie sedi italiane, i tratti della vicenda Storari/Greco/Davigo, per altro verso, denunciano quali e quanti possano essere gli abusi che si annidano nella conduzione delle inchieste penali durante la fase delle indagini preliminari. Non è questa la sede per esaminare a fondo il problema dell’unidirezionalità delle indagini allo scopo di colpire centri di potere che si sono preventivamente individuati come nemici; della tacitazione, apparentemente legittima, di fonti di prova scomode per il successo di una determinata ipotesi investigativa; della messa in disparte o, addirittura, della colpevolizzazione di magistrati che si pongono in conflitto con le scelte dei gruppi di potere dominanti, che godono di corsie informative privilegiate per l’effetto sinergico della comunanza di vita correntizia con altri colleghi. Le lezioni che provengono dalle recenti vicende – e che, almeno in parte, sembrano aver provocato serie riflessioni all’interno della magistratura – debbono indurre a una riforma strutturale urgente, consistente nella separazione radicale, fin dal concorso di ingresso, dell’ambito dei magistrati giudicanti da quello dei magistrati del pubblico ministero.

Come si è potuto constatare, le lotte più aspre hanno riguardato la conquista degli incarichi di vertice della magistratura inquirente. Ciò in ragione della vastità e dell’intensità dei poteri che sono inerenti alla titolarità di tali incarichi. Alla dilatazione, veramente eccessiva, dei poteri degli organi inquirenti (ma non è il caso in questa sede di esaminare le ragioni politiche, sociologiche e strettamente codicistiche di questa dilatazione di poteri), occorre che lo Stato di diritto faccia fronte rafforzando l’indipendenza e la terzietà assoluta della magistratura giudicante, garanzia di uguaglianza, di libertà e di giustizia per tutti i cittadini. Essa deve essere indotta a indossare, fin dalla preparazione ai corsi per l’ingresso in magistratura e dall’esercizio delle prime funzioni professionali, l’abito dell’equidistanza dalle ragioni dell’accusa e della difesa e, prima ancora, ad imparare che lo scopo della giustizia, sia civile che penale, non è favorire la formazione o il consolidamento di determinati assetti di potere, bensì pronunciare il giusto in una determinata vicenda umana secondo le leggi, la Costituzione e i principi supremi della giustizia, in un orizzonte di umiltà e di servizio all’intero Paese.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 31 agosto 2021 alle ore 12:51