Da queste pagine abbiamo già affrontato il problema della morte del contratto sociale, che circa trecento anni fa emendava l’uomo dal servaggio, dando autorevolezza al lavoro. Ma la latitanza della classe dirigente, soprattutto delegata ed elettiva, sul tema del binomio libertà e lavoro, ed in un momento in cui si chiede ai disoccupati di darsi al volontariato, è foriera d’oscuri presagi. Il vuoto su queste tematiche è pressoché totale nell’attuale rappresentanza politica, fatta eccezione per alcune frange estreme politico-sindacali, che da sempre si presentano all’elettorato come paladini dei diritti dei lavoratori.
Di contro nella cosiddetta fascia amorfa e sedicente moderata (più mediocritas che medietas di Orazio) che spazia tra centrosinistra e centrodestra, la maggior parte dei candidati si dichiara “amico del potere”, “in dialogo con i poteri forti”, “mai confliggente con i piani alti”, soprattutto sono spaventati da qualsivoglia richiesta di strale verso la classe dirigente. Quindi ci si domanda se la tutela del contratto sociale (dignità del lavoro e libertà individuali) possa trovare robusta sponda in una rappresentanza fatta di ometti, quote rosa buoniste ed animate da servilismo (mai di più lontano dalle combattenti femministe) e “quote arcobaleno” con robuste velleità nello spettacolo. Al punto che gran parte delle candidature sembrano solo appagare il desiderio fantozziano di tanti esserini per troppo tempo nell’ombra, oggi finalmente in grado di godere dei riflettori d’una temporanea campagna elettorale. La gente si chiede come possano difenderci da soprusi, angherie, prevaricazioni. Perché se il contratto sociale è in coma ed il potere non si fida più del popolo (o dei popoli) potrebbero mai dei culturalmente servi garantirci libertà essenziali, uguaglianza a cospetto della legge e rispetto del lavoro? Il confronto tra le tematiche affrontate dai velleitari di oggi con i discorsi dei vari Pietro Nenni, Amintore Fanfani e Aldo Moro, rivaluta democristiani e socialisti d’un tempo come pericolosi eversori e strenui difensori del “contratto sociale”. Ben si comprende come una debole classe dirigente possa facilmente mettersi a servizio, e per il solo bene del potere, delle varie mafie, camorre e ‘ndranghete.
Qui emerge l’enorme buco formativo dell’attuale classe dirigente che, probabilmente per presunzione spicciola, non ha mai pensato d’indagare sulle ragioni dell’infelicità che alberga nel cittadino di oggi. I partiti dal canto loro ben si guardano da corsi formativi sul problema. Certo la lettura di Impero, indagine sociale dei filosofi Toni Negri e Michael Hardt, farebbe comprendere ai candidati che lo spazio occupato dal lavoro si sarebbe a tal punto dilatato da coincidere con la vita stessa degli individui: è ormai impossibile distinguere tra attività produttive, improduttive e riproduttive; tra occupazione e disoccupazione; tra capitale costante e capitale variabile, tra mezzi di produzione e forze produttive.
Toni Negri spiega la nostra società, il suo nuovo modello di sviluppo post-fordista: oggi il capitale ha assunto sotto il proprio diretto controllo l’intero nostro ambito sociale, la nostra completa prassi vitale. Così la fabbrica si socializza, e l’intera collettività diviene terreno di attività produttive immediatamente soggette al comando capitalistico. Ecco che il capitale diviene “capitale sociale” e si appropria completamente della società, che è tutta alle dirette dipendenze del capitale (Google, Amazon, Facebook, le società di Bill Gates, Black Rock). Il borghese che vediamo oggi candidarsi tra i vari moderati non sa d’essere un “operaio sociale”, ignora che il lavoro non possa più distinguersi dalla vita: si è tutti una “moltitudine bio-politica”, ma si teme di dover fare quest’ammissione di fratellanza.
È troppo comodo sedersi in cattedra e reputarsi classe dirigente, e quindi dividere l’elettorato in operai, piccoli borghesi e borghesia alta e media. La falsata visione della società non permette all’attuale classe dirigente di adempiere ad alcuna delega dell’elettorato. Soprattutto la rappresentanza politica (locale e nazionale) non vuole accettare nemmeno l’idea della ristrutturazione capitalistica che ha cagionato la crisi sociale, economica e politica: il potere ed il capitale hanno congelato ogni anelito antagonista (ogni lotta) trasformando il rapporto tra produzione e territorio. Sono così stati capovolti i valori e le colpe. Per fare un esempio, responsabile dei processi produttivi e dell’inquinamento è oggi la società stessa, e non più il potere (multinazionali, grandi gruppi industriali, speculatori). Di fatto la classe dirigente politica è ormai un vassallo dell’alto potere, un corpo intermedio suffragato dal basso (dal voto) che obbedisce al potere. Ma col tramonto d’un sistema sociale (e del compito storico dei partiti) come un magma la società civile assurge a sempre nuovo referente della rivendicazione e della lotta.
L’evidente vuoto di rappresentanza è riscontrabile da ognuno di noi, e rivolgendo semplici interrogativi a qualsivoglia candidato: la ricerca dello scrivente s’è fermata al concetto di “reddito universale di cittadinanza” e, conseguentemente, al progetto di “povertà sostenibile”. A parte chi ha risposto con battutine (andrebbero registrate e diffuse in campagna elettorale) la maggior parte degli interpellati ha eluso il tema o, peggio, ha chiuso la conversazione. Ne deriva quanto sia difficoltoso ricostruire la comunità umana, e perché la conflittualità è già presente in chi si candida a rappresentarci: quest’ultimo ancora pregno di pregiudizi lavoristici come il “lavoro sommerso” o il fatto che “non si deve essere sempre retribuiti”. Posizioni preconcette che precludono alla reciproca cooperazione nell’ambito della comunità, insomma alla creazione di quell’intangibile valore sociale a cui dovrebbe concorrere la buona politica. Quest’ultima, priva di risposte, finisce per avallare il progetto elitario d’una “povertà sostenibile” (da cui l’individuo non sortisce) tessendo apologie del “terzo settore” o giustificando il volontariato come parco buoi della “disoccupazione strutturale”. Di fatto il pianeta è oggi governato da un unico gruppo di potere, ed i corpi intermedi nazionali e locali non vogliono riconoscerlo o lo ignorano: è la profezia di Karl Marx, oggi gli scenari di guerra non sono più tra popoli o tra nazioni, ma globalmente tra popolo e potere.
Negri e Hardt scrivono che “la politica dovrebbe essere sfera di mediazione tra forze sociali in conflitto”, ed ammettono che oggi per via della rappresentanza non ha più ragion d’essere. Ecco che l’Impero (secondo Negri) rappresenta un “mutamento radicale che finalmente rende possibile il progetto capitalista di riunire potere economico e potere politico… realizzare un ordine propriamente capitalista”, nel quale lo Stato ed il capitale coincidono effettivamente (e lo vediamo nei contratti e nelle logiche di partenariato pubblico-privato). La realtà imperiale è monistica, ha abolito le dualità che innescavano il moderno conflitto sociale. Tutto questo consente al nuovo sovrano “di dominare gli spazi infiniti del pianeta, di penetrare le profondità del mondo bio-politico e di affrontare una temporalità imprevedibile”.
La non presa di coscienza di questa classe politica ci sta conducendo verso normative globali sul lavoro che, sempre più potranno somigliare alle leggi di Roma per fermare la fuga dalle campagne verso le città: il provvedimento aveva imposto ai coloni di trasmettere il proprio mestiere bracciantile ai discendenti. La fissità sociale delle classi di cui parlava Casanova (terminata con la Rivoluzione francese) che aveva legato i poveri non urbanizzati al terreno che coltivavano, al punto da essere venduti insieme ad altri strumenti di produzione anche ai nuovi proprietari dei fondi. Il proprietario del fondo aveva il diritto di reclamare i coloni al suo servizio qualora si fossero allontanati dal podere: poteva infliggere loro pene corporali in caso di disobbedienza, stabilire in quali modi ogni colono potesse utilizzare la propria paga.
Oggi i fondi e le grandi società di speculazione parlano di “povertà sostenibile” di moneta elettronica a fronte di salari e stipendi, di come le banche dovrebbero indirizzare i cittadini sull’acquisto di beni e servizi. È la nuova “servitù della gleba”, ma i novizi della politica fanno finta di nulla e voltano la testa altrove.
Aggiornato il 04 giugno 2021 alle ore 11:55