Negli ultimi scorci del passato millennio si era ancora in ambasce, nel cogente dubbio (forse speranza) che la politica potesse ancora mediare tra poteri e popoli. Eppure, molti anni prima, Jacques Le Goff si dichiarava lapidario con lo scrivente, preconizzando che il Terzo Millennio ci avrebbe comunque rituffati dentro un evo medio cibernetico, verso quella chiusura che l’Europa aveva già vissuto dopo il crepuscolo dell’Impero Romano: luci ed ombre di quel periodo narrava Le Goff, splendori e miserie d’una chiusura che, ricca di spiritualità, avrebbe catapultato l’uomo verso l’Umanesimo, minando la struttura gerarchica medievale al punto da lasciar già intravedere un futuro fatto di centralità del lavoro libero.
Non più servi protetti dal castello, non più atti di volontariato verso un padrone a cui si dovesse comunque rimanere eternamente grati. La società occidentale (la si poteva già chiamare così) era ormai matura per il “contratto sociale”, forse una tregua armata tra potere e popolo durata quasi trecento anni. Thomas Hobbes, John Locke, Jean-Jacques Rousseau… erano tutti pronti ad augurare lunga vita alla nascita della nuova società, ovvero quella vita comune libera dai passati vincoli, soprattutto in grado di sostituire quello stato di natura e prevaricazione che relegava i popoli in una prigione d’instabilità ed insicurezza.
Così l’Illuminismo archiviava, più o meno con la forza, quella società fondata sulla mancanza di regole sui diritti e doveri degli animali sociali. Quella ventata di settecentesche novità spalancava le porte alle monarchie costituzionali, e poi allo Stato liberale che definirà la politica degli Imperi centrali (Francia, Austria-Ungheria, Prussia, Gran Bretagna). Centrale diventava il lavoro, l’arricchirsi e progredire col lavoro. Soprattutto quel sistema garantiva che nessun membro della comunità dovesse essere escluso dalla possibilità di lavorare. L’intero Occidente viveva così un XIX secolo euforicamente innovativo, non ponendo limiti all’intraprendenza umana: come il protagonista di “Grandi speranze” di Charles Dickens che comunque non poteva non credere di progredire, di diventare gentiluomo. Alla base di questo nuovo mondo c’era un misto di fiducia e paura tra poteri e popoli. In quel clima prendeva sempre più forma il contrattualismo sociale: ovvero quelle teorie politiche che, anche grazie ai corpi intermedi (associazioni, partiti, sindacati), permettono si sigli e si rispetti un contratto tra governati e governanti, con obblighi precisi per ambedue i contraenti. Ecco che il potere politico si basa su un contratto sociale che pone fine allo stato di natura: è l’inizio dello “Stato liberale” ed anche di quello sociale, e la democrazia è solo strumento ed arbitro di questa nuova società.
In quest’ultima i popoli accettavano spontaneamente le leggi, e l’uomo (anche il più triviale) perdeva parte della propria pericolosità sociale in cambio d’una maggiore tranquillità e sicurezza familiare. Ma cosa potrebbe succedere se i popoli percepissero sempre più che i poteri non si fidano più della gente? E chi violerà per primo il patto? Forse è stato già violato, e perché i poteri hanno evidentemente generato un potere politico illegittimo: e di esempi dall’Italia agli Usa passando per Europa e Taiwan ne abbiamo parecchi. La violazione di questo patto, e la dichiarazione di sfiducia del potere verso il popolo, legittima resistenza e ribellione sociale. E può un potere sostenere che il popolo vive nell’illegalità? Quest’ultima affermazione è tipica d’una politica delegittimata, le dichiarazioni dei Cinque Stelle sono esempio evidente (il caso di Nicola Morra è di questi giorni).
A questo s’aggiunge che la politica delegittimata, in forza dell’Agenda Onu 2030, vorrebbe nuovamente ridurre i popoli verso lo stato di natura. Strappando il contratto e la libertà di lavorare che ne deriva: etichettando il fattore antropico ed il lavoro come causa prima d’inquinamento, riducendo nuovamente l’uomo in uno stato di servitù della gleba (finanziaria e cibernetica) grazie ad un programma di “povertà sostenibile” che costringerebbe il cinquanta per cento dell’umanità a vivere grazie al “reddito universale di cittadinanza”, moneta elettronica che non verrebbe più erogata in caso di non sottomissione umana alle regole cibernetiche.
Allora aiutateci a capire come si possa definire questo Stato, che non è più né liberale né sociale, e perché preclude ad un futuro in cui gli uomini possano ancora definirsi politicamente associati tra loro. Perché l’antico “Stato liberale” ed il novecentesco “Stato sociale” erano diversi modi di declinare la libertà in politica dei popoli: e tra loro si sono anche contaminati per meglio aggiustare il contratto. Erano diversi modi d’interpretare la libertà. Ma oggi un nugolo di potenti, riuniti a Davos in un convegno organizzato da Klaus Schwab, ci dice che il potere non può più fidarsi dei popoli: perché i popoli inquinano, contaminano, infettano, non pagano i debiti, prendono scorciatoie mafiose per salire sull’ascensore sociale… insomma la gente è brutta, sporca e cattiva.
Siamo alla cattiva fede del lupo nei riguardi dell’agnello, come nella favola di Fedro. Per tutto l’Ottocento, fino ai primi decenni del Novecento, abbiamo avuto una grandissima distinzione tra il piano privato e le istituzioni pubbliche: la struttura sociale era di tipo liberale, i privati tessevano le loro relazioni facendo funzionare i mercati, mentre lo Stato si poneva sostanzialmente in una posizione terza. Quest’ultima, però, prevedeva politiche che potessero frenare degenerazioni sociali causate da intrecci fraudolenti tra privati. Dopo la depressione del 1929, lo Stato non veniva più percepito come ostacolo all’attività privata, ma come un correttore di storture che avrebbero potuto rompere il contratto sociale. In quella lontana logica trovava radici la ridistribuzione della ricchezza prodotta, e per permettere il sostentamento delle famiglie senza eccessivo indebitamento privato. Ovvero lo Stato vigilava che non vi fosse sfruttamento dei lavoratori: ma lo Stato odierno da un lato piega il ginocchio con Amazon, giustificando salari degni del Congo, e dall’altro sguinzaglia gli “sbirri” per chiudere piccole attività artigianali e commerciali in nome di fumose normative Ue.
Lo Stato novecentesco guardava alla tutela di libertà ed uguaglianza (lo Stato liberale privilegia la prima ed il sociale la seconda). Ma lo Stato di oggi chi tutela gli interessi riuniti a Davos? L’economia liberista ha sempre lasciato che il mercato si autocorreggesse. Ma negli ultimi anni Donald Trump ha puntato il dito contro certe concentrazioni di potere (Bill Gates, George Soros, multinazionali amiche di Schwab) colpevoli di aumentare le disuguaglianze, di non tutelare i lavoratori subordinati e di aumentare la disoccupazione: durante la presidenza Trump, è calata la disoccupazione e, soprattutto, molte multinazionali sono state condannate nelle corti Usa a seguito di tante class action. Risultato? Trump è stato accusato di populismo, e le presidenziali le hanno vinto i “liberal” che non si fidano più dei popoli.
Non sappiamo quale appellativo dare al mostro, a questo nuovo tipo di Stato, che invece di far calare le diseguaglianze perora la decrescita felice. La gente inizia ad avvertire che il contratto sociale è irrimediabilmente rotto, che l’esercizio della democrazia è più che mai un fatto meccanico pari all’abbeveratoio dei conigli in batteria. Il castello almeno aveva le mura, nella nuova lunga notte selvaggia l’uomo di strada non sa dove ripararsi. Il potere non si fida più di tutti noi, Papa Francesco valuta positivamente l’Agenda Onu 2030 come l’incontro di Davos. Chi può solleva il ponte levatoio, sperando di svegliarsi quando l’equilibrio verrà trovato.
Aggiornato il 24 marzo 2021 alle ore 09:36