I partiti liquidi e gli strapuntini liberali dei populisti

Un tempo i partiti avevano una vita democratica interna. Questa si svolgeva a vari livelli: dalle sezioni ai congressi, dagli organi di stampa alle segreterie. I partiti di oggi sembrano invece esserne privi, ma con modalità diverse, per certi versi opposte, per altri affini. Da un lato, il M5S sembra aspirare alla realizzazione di una democrazia diretta, anche al suo interno, utilizzando gli strumenti messi a disposizione dal web, ma finisce in realtà con l’accontentarsi di sua approssimazione vaga, confusa e arbitraria. Come scrive Sabino Cassese sul Corriere della Sera del 17 ottobre, mentre “una volta i partiti venivano criticati per qualche centinaia di nomine”, ora che queste sono divenute migliaia la consultazione di poco meno di 120mila iscritti dovrebbe, secondo il M5S, fornire una “garanzia di scelta secondo merito”. Ma “perché una persona scelta dal Movimento – e si può immaginare – tra i propri simpatizzanti dovrebbe darebbe maggiori garanzie di altre?”.

Il M5S appartiene, in sostanza, a una tipologia di partiti con spiccata vocazione populista, tipologia che può essere ancora meglio spiegata grazie a quanto lo stesso Cassese scrive ne La svolta (il Mulino, Bologna), dove la riconduce al “desiderio insaziabile di eguaglianza” e a una “richiesta crescente di diritti” che non è sempre possibile garantire. Questi partiti tendono ad alimentare il desiderio di una democrazia illimitata o assoluta, desiderio che ispira ancora oggi provvedimenti di dubbia efficacia, che rischiano d’accrescere le difficoltà piuttosto che risolverle, come ad esempio il reddito di cittadinanza. Lo stesso desiderio di poter garantire comunque un reddito a chi non lavora è infatti conseguenza di una concezione demagogica della democrazia. Concezione che, mentre presume di poterla realizzare in una forma diretta persino all’interno di una società di massa, può nel contempo, con glaciale sfrontatezza e contro ogni evidenza, ritenere e dichiarare di aver abolito la povertà.

Vi è però anche una seconda tipologia di partiti che sembrano costituiti da sciami d’individui impegnati a seguire, in modo più o meno letterale, le direttive di un leader “carismatico”, come lo avrebbe definito Max Weber. L’organizzazione dei partiti di questo secondo tipo è a un tempo verticistica e liquida: per un verso dipendono dall’autorevolezza e dal prestigio dei loro capi, per altro verso questi possono deviarne le strategie politiche in modo abbastanza estemporaneo e disinvolto, senza consultare nessuno, senza alcun dibattito interno preliminare e senza dover rendere conto delle proprie scelte ai propri iscritti, fatta salva qualche sommaria spiegazione a posteriori. Unico e ultimo giudice, per decretare la bontà o meno delle scelte fatte dai leader, non sarà il popolo degli iscritti, bensì e successivamente, quello dei sondaggi, o dei votanti nelle successive consultazioni elettorali.

I tratti salienti di questa seconda tipologia sono illustrati da Cassese in un altro articolo (sul Corriere della Sera del 14 dicembre del 2014), in cui osservava come, mentre una volta i nomi dei partiti erano scelti “per caratterizzarsi e dividere (comunisti, socialisti, democristiani), ora sono sempre meno identificativi (chi si dichiara contrario alla democrazia e alla libertà?)”. I partiti di oggi sono meno presenti sul territorio, la loro organizzazione è più fluida, mentre la figura del leader risulta sempre più decisiva. Inoltre, “il finanziamento mediante il tesseramento viene sostituito dal finanziamento con cene a pagamento e il micro-finanziamento dal basso (crowdfunding). I partiti che ricorrono a primarie aperte a non iscritti abbattono le mura che dividono iscritti e simpatizzanti”. Secondo Cassese questa “liquefazione” dei partiti li rende sempre più simili ad “aggregazioni elettorali, attive al momento del voto”, trasformando così “la lotta elettorale da guerra di posizione in guerra di movimento e aumentando l’importanza del mercato politico”.

Anche quando si fanno portatori di proposte ragionevoli e convincenti, sia i partiti a vocazione populista sia quelli a vocazione liquido-carismatica sembrano comunque manifestare una concezione disinvolta e “pronto uso” della democrazia: un leader parla in tv o sui social e tutti lo seguono, confermando con un like quello che ha detto e dando una prova immediata di adesione e consenso. La classe politica che ne risulta, in mancanza di un’adeguata selezione e valutazione che non sia essenzialmente operata attraverso i media, è sempre più indipendente da un percorso formativo autenticamente democratico. Questa tendenza può consentire di superare le fortificazioni ideologiche del passato e di avviare “la formazione di corpi politici a vocazione maggioritaria, che non debbono far ricorso a coalizioni”, ma per Cassese rischia anche di produrre “un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente, al quale bisogna porre rimedio”.

All’interno di questo scenario, infatti, i partiti non svolgono più quella funzione di palestre democratiche che svolgevano un tempo: essi assomigliano piuttosto a società di marketing del consenso che i rispettivi leader guidano verso obiettivi in genere piuttosto mobili, attraverso i social network e i media. Questo tipo di funzionamento li rende idonei a sopravvivere, a crescere o decrescere rapidamente, ma tende anche ad erodere progressivamente quell’humus democratico su cui sono sorti. In essi, l’influenza dei vertici sulla base non è controbilanciato dall’esistenza di un dibattito autonomo all’interno di questa, che si limita quindi ad eseguire, spesso in modo abbastanza acritico, altre volte manifestando solo qualche riottosità, le direttive del leader.

Ora, che alcuni partiti così concepiti non si trasformino in dei centri di potere poco democratici è un’evenienza poco sicura, affidata com’è alla loro natura populista e/o liquida: quelli a vocazione populista rischiano infatti di assecondare un’idea arbitraria e demagogica di democrazia, mentre quelli a vocazione liquida e carismatica rischiano, nella migliore delle ipotesi, di riuscire a opporre a questa tendenza solo espedienti tattici di breve periodo e nessuna effettiva resistenza critica nel corpo sociale. Senza, peraltro, poter garantire di non indulgere, anche solo a fini competitivi, a proposte o strategie elettorali altrettanto populiste.

In questo contesto, anche i partiti che condividono in maniera più coerente di altri dei comuni valori liberaldemocratici, e che dunque potrebbero con maggior convinzione opporsi a questa liquefazione delle pratiche democratiche fondamentali, rischiano invece di rivelarsi una sorta d’integratori di fazioni populisticamente contrapposte: non essendo tali principi considerati, almeno nella percezione comune, requisiti abbastanza caratterizzanti e “divisivi” – come spiega bene Cassese – si finisce col ritenerli subordinati ad elementi che lo sembrano di più. Per questo motivo, proprio questa situazione rende sempre più difficile un’aggregazione intorno a pochi e fondamentali valori comuni di tutti i liberaldemocratici, esponendoli così al rischio di diventare strapuntini elettorali di populismi di diverso colore. Ciò che sarebbe oggi più necessario, nonché il segno di un’assunzione di responsabilità verso il Paese e la stessa democrazia, rischia così di rivelarsi ogni giorno un’ipotesi sempre più improbabile e remota.

Eppure, gli errori commessi dai liberali alla vigilia della marcia su Roma, quando non fu sondata fino in fondo la possibilità di un accordo coi popolari e si preferì dividersi per andare in ordine sparso all’accordo, prima elettorale e poi di governo, con il Partito fascista, potrebbero essere ancora di monito: quando i liberaldemocratici si dividono rischiano sempre di diventare subalterni alle forze populiste emergenti, che in tempi di grande crisi sociale e politica non mancano mai e sono sempre in agguato.

Aggiornato il 21 ottobre 2020 alle ore 11:43