Commento alla Nota quirinalizia del 28 maggio 2020

A distanza di considerevole arco di tempo dalla deflagrazione, coinvolgente i massimi rappresentanti dell’associazionismo della magistratura ordinaria e figure istituzionali di primo piano, “il caso Palamara” – per come lo si è identificato dal nome del principale protagonista, già più giovane presidente Anm – resta ben lungi dall’aver assunto contorni definitivi e confini netti, anche a causa della malcelata ritrosia se non inammissibile reticenza dei principali mezzi di informazione – tra cui in primis i canali del servizio pubblico televisivo e radiofonico – ad affrontare compiutamente la problematica ed a sviscerarne possibili ricadute ed attuali conseguenze per il prosieguo della vita istituzionale del Belpaese. Si tratta a ben vedere di una crisi ordinamentale di vasta portata e di eco progressiva, non dissimile ad altre (es alcuni, il sindaco Luigi de Magistris, ex pm, l’hanno paragonata a quella della loggia massonica segreta P2), che hanno segnato in profondità la vita della Repubblica, cambiandone irreversibilmente i connotati. In tale contesto da giovedì 28 maggio scorso si registra – ad un anno esatto dal primo ammonimento – il secondo intervento ufficiale del Quirinale, affidato a nota diffusa dall’ufficio stampa. Sin dagli esordi nel maggio 2019, il caso Palamara, che – secondo locuzione di Leonardo Sciascia a proposito di tragica fine di Aldo Moro – si presenta con fisionomia di un veritable affaire, destinato ad assumere implicazioni rilevanti e imprevedibili ricadute “a cascata”, non ancora immaginabili agli occhi di chi ne registrò il debutto sul palcoscenico del “circo mediatico-giudiziario” domestico (cfr. l’impareggiabile analisi della giustizia-spettacolo, condotta da Daniel Soulez Lariviere, cui si è ispirato negli anni di Tangentopoli il saggio di Arturo Diaconale Tecnica postmoderna del colpo di stato – rispettivamente Parigi 1992-Milano 1994).

Tali implicazioni dapprima minimizzate e lasciate sopite, si son amplificate in maniera progressiva e irreversibile – a mo’ di onde propalatesi centrifugamente da sasso gettato in limaccioso stagno – non solo sugli assetti interni della magistratura associata e sull’articolazione correntizia nel Csm, ma financo sulle modalità di svolgimento dell’azione giudiziaria in generale e quella disciplinare in particolare, tanto da attenzionare il mondo parlamentare con la richiesta dell’istituzione di una commissione d’inchiesta (cfr. tempestiva proposta del senatore Maurizio Gasparri). Infatti tale affaire ha indotto in rapida successione alle dimissioni ben 4 componenti elettivi togati, tutti appartenenti a corrente di Unicost (quella di Palamara), e addirittura di uno dei tre membri di diritto, l’allora procuratore generale presso la Cassazione Riccardo Fuzio – proprio il soggetto titolato a promuovere l’azione disciplinare, in qualità di rappresentante dell’accusa, presso la sezione disciplinare del Consiglio medesimo – cosi comportando uno stravolgimento degli equilibri di rappresentanza e rappresentatività delle componenti dell’organo di autogoverno (eletto col sistema proporzionale), in pratica impattando su quelle cosiddette correnti, che da decenni contribuiscono alla dequotazione del Csm in “Parlamentino dei giudici”, con innegabile spiccata politicizzazione di ogni sua attività.

Ebbene il capo dello Stato, che è ad ogni effetto il presidente del Csm, a termini del collegato disposto degli articolo 87, comma quinto, 104 cpv. Cost., è tornato a far sentire la sua opinione, questa volta non con voce indignata nella seduta del plenum del Csm in cui venne accolto dall’avvocato David Ermini (altro vicepresidente nominato dietro designazione renziana) – bensì affidando la ferma riprovazione, già manifestata lo scorso anno nella sede istituzionale propria, ed aggiungendovi alcune considerazioni ancillari. Detta nota a firma del presidente Sergio Mattarella – già professore di diritto parlamentare, ed autorevole giudice della Consulta, nonché in precedenza più volte ministro della Repubblica dal 1987 e vicepresidente Consiglio dei ministri da ottobre 1998 a dicembre 99 – si struttura logicamente in due parti distinte, quella preambolare, in cui si richiamano e ribadiscono le considerazioni in precedenza svolte l’anno scorso, e quella – a carattere sol all’apparenza più dimesso, quasi scontato – contenente delle innovative notazioni, non già sul fenomeno ampiamente stigmatizzato del malcostume emerso dall’inchiesta condotta dalla Procura di Perugia, bensì sul ruolo e sui poteri il cui esercizio può spettare al capo dello Stato nei confronti del Csm in tali frangenti, individuandone la natura e circoscrivendone rigorosamente i limiti posti dall’ordinamento.

Siffatte considerazioni sono apparse improntate a tenore didascalico–pedagogico e, secondo quanto osservato da alcuni accreditati quirinalisti, sempre attenti a cogliere le nuances di allocuzioni ed esternazioni presidenziali, trasudavano una certa qual “seccatura” nel dover ripetere concetti già espressi. nella parte dedicata a ruolo e compito del presidente della Repubblica, secondo Costituzione e leggi vigenti (in quanto l’auspicata riforma del Csm, non confinata al sistema elettorale è restata sinora lettera morta), traspare un messaggio-rimbrotto e/o un messaggio-lezione, in relazione all’organo di rilievo costituzionale di autogoverno della magistratura ordinaria, con precipuo riferimento all’ipotesi di scioglimento anticipato del Csm – rispetto a durata ordinaria quadriennale della componente elettiva, togata e laica. Per provare a sviluppare qualche considerazione critica, preme accennare brevemente allo stile dell’attuale XII presidente della Repubblica, che già nel discorso d’insediamento del 31.01.2015 dopo aver prestato giuramento di fedeltà-osservanza alla Costituzione davanti al Parlamento in seduta comune ex articoli 91 della Costituzione, volle richiamare al rispetto rigoroso del ruolo assegnato al capo dello Stato nella forma di governo parlamentare, intendendo con ciò – pur conscio delle evoluzioni dei tempi – segnare una netta demarcazione, all’insegna della discontinuità, rispetto ad esperienze e prassi presidenziali più invasive, come per i predecessori Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano (presidente che nell’esercizio del potere cruciale di nomina del premier aveva fatto ipotizzare la necessita di una doppia fiducia, delle camere e del colle, e indotto a parlare di Governo del presidente).

Pertanto la nota del presidente Mattarella – il cui contenuto il capo dello Stato ha di certo concordato con gli esperti giuridici del Quirinale, magistrati ordinari distaccati dal ruolo di appartenenza su richiesta e previa autorizzazione del Csm – si inspira a questa linea di tendenziale selfrestraint dei poteri presidenziali; linea di autolimitazione da non equivocare con remissività istituzionale o peggio abdicazione dagli stessi, bensì rigorosa delimitazione del campo d’intervento alla stregua di perimetrazione costituzionale, affinché allorquando esercitati i poteri presidenziali, sfuggendo al possibile rilievo di esorbitanza o di non stretta inerenza (cosiddetto enlargement), possano risultare maggiormente vigorosi ed efficaci, nella prospettiva di salvaguardia dell’autorevolezza di ogni intervento presidenziale. In questa prospettiva Mattarella è artefice di una interpretazione del suo ruolo, all’insegna del “Ritorno allo Statuto”, con ciò intendendosi l’attenzione a rinvigorire la fedeltà al dettato costituzionale repubblicano, ad autolimitarsi per essere maggiormente incisivo.

Il presidente non si è mai sottratto, ne ha mai solitamente tardato, dall’intervenire nei campi di sua competenza, ma il suo stile si vuole asciutto e coerente, senza slabbrature istituzionali; la pur sinottica nota in esame non può esser svilita ad incidentale occasionale di rimbrotto o mera ricapitolazione per relationem di concetti già espressi, ma deve riconoscersi la sottesa dignità di “lectio magistralis” sul proprio ruolo nei confronti del Csm, e precipuamente sui poteri presidenziali a disposizione per l’indirizzo dell’operato in tempo di crisi. Ove si rifletta che la nota, costituente in ordine cronologico il secondo intervento su medesimo tema, si è situata con un certo qual proverbiale distacco temporale (circa una settimana circa), rispetto ad accorati appelli e pressanti sollecitazioni, rivoltigli, non solo da primari esponenti politici dell’opposizione (ad es. la telefonata al Colle del senatore Matteo Salvini, citato a giudizio per l’operato da ministro, all’udienza preliminare innanzi al Gip di Catania fissata il 4 luglio, dopo la concessa autorizzazione senatoriale, che gli ha espresso il timore che non gli fosse assicurato, dati i precedenti, un processo equo), bensì anche da un variegato settore di società civile, composto da testate giornalistiche (in primis Libero di Vittorio Feltri; La Verità del direttore Maurizio Belpietro, il quale ha pubblicato integralmente i verbali di intercettazione), conduttori radiofonici, opinion maker, magistrati non tesserati o schierati, etc., la circostanza depone nel senso che il promemoria sia stata frutto di meditato opinamento, ausiliato dai noti esperti giuridici.

L’ottimo Corriere della sera riportandone il contenuto, precisa che il Presidente “ dopo aver recuperato le dure parole già usate circa il mercato delle toghe grave sconcerto e riprovazione per la degenerazione del sistema correntizio nonché per l’inammissibile commistione tra politici e magistrati, costituente un costume inaccettabile capace di intaccare prestigio e credibilità dell’ordine giudiziario”, si è determinato alla diramazione per “rompere l’asfissiante assedio politico e mediatico” (articoli a firma Marzio Breda, pagina 10, 30.5.20); ed aggiunge che dal tenore seccato, traspare un vago sapore polemico, come se il capo dello Stato rampognasse l’uditorio, per un peccato di distrazione: “ma come non ve lo avevo già detto l’anno scorso? Che c’è di nuovo da scoprire? Non era stato forse esauriente il chiarimento del mio pensiero l’anno scorso? Non fatevi condizionare da chi chiede lo scioglimento anticipato dal Csm o adozione misure sanzionatorie straordinarie, adeguate a grave situazioni, entrambi esulanti dalle mie competenze”.

Singolarmente, il cronista del Corsera dimentica che “assillante ed assordante”, non è stato tanto l’assedio politico-mediatico, ma il silenzio sul punto dei principali mezzi di informazione – l’autorevole testata cui collabora in primis e altra “stampa di regime” – e d’altronde, egli, convinto delle asserzioni del quirinale tanto che non avverte bisogno nemmeno di illustrarle, si presta nell’occasione a fare da “grillo parlante”, ventriloquo dell’interpretazione autentica rilasciata dal Quirinale. Non si pone il problema centrale, qui affrontato seppur in via embrionale, se la nota, correttamente o meno, finisca direttamente col propugnare in relazione all’assoluta specificità dell’affaire Palamara & Co., una lettura irrituale di eccessivo selfrestraint dei poteri presidenziali. Qualcuno dimentica o finge di dimenticare infatti, che dal maggio 2019, sono emerse significative rilevantissime novità nell’affaire Palamara, non solo e non tanto per qualità, quantità, pervasività dei comportamenti scorretti e disciplinarmente illeciti – riguardanti non questo o quel magistrato o corrente, ma pressoché la quasi totalità della magistratura aspirante ad incarichi direttivi, in specie presso le principali Procure, in un quadro desolante di traffico sistematico di influenze di vario genere, seppur forse non penalmente illecite, bensì soprattutto in relazione all’accadimento di inaudita gravità istituzionale, che ha visto coinvolto in prima persona, anzi in veste di promotore della disfunzione e torsione istituzionale al massimo livello dell’organo, lo stesso ex vicepresidente Csm avvocato Giovanni Legnini da Chieti.

Al riguardo giovi ricordare che persino la giunta esecutiva Anm, che un anno or sono aveva avallato la tesi delle poche mele marce, presenti in corrente Unicost, ha dovuto prender atto seppur tardivamente dello tsunami che ha investito tutta la magistratura associata Mi, Md, Area inclusa (salvo neo componente di “Autonomia e indipendenza”, facente a capo Piercamillo Davigo), ed ha rassegnato le dimissionaria, con presidente Luca Poniz confinatosi nel limbo per non aver assecondato la richiesta di elezioni di rinnovamento anticipate. Lo scandalo emerso deve additarsi come affaire Palamara & Co., in quanto voler addossare tutte le responsabilità all’unico protagonista principale, capro espiatorio da immolare per tutti, sarebbe riduttivo, fuorviante e pernicioso, avallando quella tentazione di autoriforma del Csm. E sì vero che Palamara, ex presidente Anm e leader indiscusso di Unicost, ha avuto disvelato pienamente ora il suo ruolo di infaticabile tessitore ovvero di “grande burattinaio” all’interno Csm, ma voler silenziare il complessivo affaire col procedimento disciplinare sfociato nella sua sospensione da funzioni e stipendio (delibera del plenum confermata di recente dalle Sezioni Unite della Cassazione) non rende giustizia a nessuno, ed in primis ai tanti magistrati, non appartenenti a correnti e perlopiù dediti ad attività giurisdizionali in posti non direttivi, che sono rimasti sconcertati e attoniti dallo scenario emerso, non solo in relazione a nomine e avanzamenti di carriera; magistrati basiti al pari del comune cittadino ignaro utente del (dis)servizio giustizia, ed in genere di tutti gli operatori del mondo del diritto.

I fatti emergenti con inequivocabile nitore dalle intercettazioni perugine sono arcinoti: la sera stessa del 24.8.19, in cui apprende dell’avvenuta iscrizione nel registro ndr del Ministro dellInterno Salvini per il caso della nave Diciotti, da parte del Pm di Agrigento Luigi Patronaggio, il vicepresidente Giovanni Legnini – la figura istituzionalmente chiamata a rappresentare, in quotidiano svolgimento funzioni, il capo dello Stato al vertice del Csm, sorta di suo alter ego istituzionale – telefona di propria iniziativa a Palamara, consigliere togato in carica, affinché si attivi senza indugio, onde coordinare con altri membri del Csm – e il solerte Palamara ne riuscirà a trovare seduta stante 4 firmatari – l’iniziativa di nota rivolta al medesimo vicepresidente Legnini, affinché la ponga immediatamente all’ordine del giorno del plenum, onde pervenire all’apertura subitanea di pratica a tutela di Patronaggio, fatto segno di attacchi “strumentali” per il suo doveroso esercizio della sua funzione investigativa. In pratica il vicepresidente si è autoprocurato la sollecitazione, incitando il sempre fattivo Palamara ad interessarsene e a farne interessare senza indugio altri componenti togati; Il vicepresidente avrà pensato di non poter disporre di altro migliore catalizzatore di Palamara, al quale , riconosciuto dominus di nomine, assegnazioni incarichi direttivi, trasferimenti per incompatibilità ambientale, avanzamenti di carriere e financo azioni disciplinari, di certo non sarebbe sfuggita la ghiotta occasione di attivare la pratica a tutela, tantoché appena ricevutala, il Legnini ci tiene a far sapere pubblicamente, in sua veste istituzionale di garante Super partes, di condividerla in toto (cfr. Belpietro, La Verità del 28.5,20, pagina 5). Grottesco se non allucinante è l’ultimo passaggio in cui il promotore Palmara, colloquiando col Pm di Viterbo Paolo Auriemma obiettante che Salvini “vedersi indagato per i migranti siamo indifendibili”, spudoratamente replica “hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo”!

Questi sono fatti sopravvenuti, quantomeno a livello di conoscenza da parte dell’opinione pubblica, rispetto al maggio 2029, fatti di inaudita gravità istituzionali, comprovanti non singole devianze ma disfunzionamenti endenici e sinanco condotte eversive, su cui il Quirinale ha il dovere di prender posizione e non può trincerarsi asserendo che siano tutti fatti noti, risalenti alla scorsa consiliatura, intendendo dire già superati, come una pratica burocratica da archiviare; D’altronde ove si volesse postulare la tempestiva conoscenza, ai tempi della commissione e non del loro disvelamento, delle condotte tenute dal vicepresidente Legnini nell’agosto 2018, ancora più grave sarebbe l’ipotesi che qualcuno le abbia tacitamente avallate o non ritenute foriere di alcun tipo di responsabilità. Infatti con algido nitore il Presidente Mattarella ha ricordato che “non può sciogliere il Csm in base a una propria valutazione discrezionale”, e che il Csm dura in carica quattro anni dall’elezione e “può essere sciolto in anticipo soltanto in presenza di una oggettiva impossibilità di funzionamento”.

Procedendo con ordine, la nota si esime dall’accennare, nemmeno con indiretto accenno, su operato del vicepresidente Legnini (che al pari del suo successore Ermini, soggetto dei dintorni del giglio magico, deve la designazione ad indicazione del Pd renziano) – Suo vice ed alter ego istituzionale! Sergio Mattarella, da uomo delle istituzioni, non può aver dimenticato che il presidente Francesco Cossiga, anche lui da giovane docente di diritto costituzionale, inviò delle camionette di carabinieri nelle adiacenze di palazzo dei marescialli, quando un recalcitrante Giovanni Galloni vicepresidente in carica nel 1985, non voleva attenersi alle sue indicazioni circa la fissazione dei punti da trattarsi con priorità all’ordine del giorno. Gli allora membri del Csm, sponsorizzati da ala cattocomunista della sinistra democristiana, pretendevano di comandare come terza camera dello Stato, in spregio alla costituzione, e volevano colpire il presidente del Consiglio del momento a loro inviso, in quanto polemico sulla gestione delle inchieste conseguenti all’assassinio del giornalista Walter Tobagi rivendicato dalle Brigate rosse, con ramificazioni nei salotti radical chic della sinistra milanese. Cossiga, che di certo nessuno poteva tacciare di essere filo-craxiano ed anzi era in diatriba con gli interlocutori del leader socialista nel partito di sua appartenenza (Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani) non lo consenti, finendo per additare il Csm come potere insurrezionale “ultroneo” rispetto al riparto delle competenze previsto in costituzione, e quindi potenzialmente in grado di rappresentare un “nucleo eversivo” dell’assetto ordinamentale dei poteri dello stato.

Tale uso ultroneo del Csm secondo Cossiga era estremamente pericoloso, in quanto finiva per eludere e sovvertire la previsione della magistratura in ordine giudiziario e potere diffuso sancito dalla Carta Costituzionale non come privilegio degli operatori togati, ma a garanzia de; oggi al malgoverno delle funzioni proprie, il Csm ha dato in più occasioni prova lampante di aver tentato di esercitare condizionamenti di natura politica sull’esecutivo e sul allora ministro dell’Interno. Quel Matteo Salvini appartenente allo schieramento politico di centrodestra contrapposto ed alternativo al partito Pd, dalle cui fila proveniva Legnini e che ivi si accingeva prontamente a rientrare, nella circostanza più che con l’autorevolezza di uomo istituzionale, indossando la casacca di funzionario di partito, per di più strumentalizzando il suo ruolo per indurre i consiglieri a fare quanto da lui divisato. L’autonomia e indipendenza per la rettitudine della funzione sovrana esercitata “in nome del popolo italiano” nulla centra con questo maneggio di palazzo, e l’apertura di prativa a tutela è stata solo il pretesto dell’avvio di una scorretta campagna politico.

L’organo non era più di autogoverno della magistratura, ma di tentato condizionamento dell’indirizzo politico in tema di migranti espresso dal governo legittimo del paese. Quindi la disamina preventiva e la delibazione dei punti all’ordine del giorno del plenum del Consiglio rientrano nelle prerogative presidenziali, non come adempimento formale ma per rispetto della preminenza delle funzione presidenziale; di certo durante la precedente consiliatura 2014-2018 non si ha notizia che l’esercizio di tale potere abbia dato luogo a problemi di sorta, in quanto Mattarella non ha avuto modo di avanzare nessun rilievo all’operato del vicepresidente dell’epoca. Ora occorre sapere se ciò non sia accaduto, pure quando il vicepresidente Legnini nel frangente di fine agosto 2029, ha proceduto a fissar all’ordine del giorno dell’Adunanza plenaria convocata a tamburo battente la pratica a tutela di Patronaggio per colpire politicamente il ministro dell’Interno, non già in base ad apprezzamenti discrezionali, ma per mero libero arbitrio, dopo che aveva provocato l’iniziativa di cui avrebbe dovuto esser solo il recettore, con manovra dichiaratamente manipolativa e preordinata alla sua “risalita” in campo politico.

Tanto ciò è vero ed assodato che uno dei consiglieri di Unicost coinvolti nell’iniziativa chiede al leader Palamara, se questo, fosse il primo atto politico di candidatura alle regionali a carica di governatore in Abruzzo (evento poi verificatosi, con esito infruttuoso), perché in tal caso i consiglieri (giudici, non parlamentari) ne volevano esser informati ex ante, per darsi una regolata. Prima di fare comunicati di guerra e dare inizio alle manovre sul campo, l’arte militare impone la predisposizione e la conta delle truppe, anche all’interno di organi come il Csm. Il Legnini dal 18.2.20, dimessosi dal Consiglio Regionale dell’Abruzzo (dove però sembra, stando alla denuncia del capogruppo Mrs, abbia traslato i cospicui fringe benefits di ex vicepresidente Csm), ha assunto l’incarico di commissario straordinario post sisma nell’Italia centrale, ed ha risposto alle obiezioni sul suo pregresso inqualificabile operato, sia in punto di metodo, che le trascrizioni delle intercettazioni erano frammentarie e decontestualizzate (sic!);che nel merito, per cui era perfettamente legittimo ed in linea con le finalità istituzionali il comportamento tenuto (sic, sic!), mentre l’improvvida ed incauta telefonata anticipatoria si spiega con il periodo di chiusura feriale del Consiglio, per cui era costretto a reperire “a casa” i membri togati (sic, sic, sic!).

(*) Fine prima parte

 

Aggiornato il 03 giugno 2020 alle ore 13:24