I protocolli di Salvini Di Maio e Conte

Ormai è chiara la ricorsività del protocollo che tiene insieme Salvini e Di Maio. E Conte. Ogni tanto i primi si appicciano sul tema quotidiano di bandiera di uno dei due. Il protestatario di turno fa la voce grossa, l’altro risponde rilanciando. Le dichiarazioni si fanno sempre più frequenti e minacciose. Gli stracci volano (ma sempre a bassa quota). A questo punto, il presidente Conte interviene per avocare a sé il tema della discussione e richiama i suoi vice, lasciando intravedere la preferenza. Il tono sale ancora e si cominciano ad evocare gli spettri di crisi ed elezioni, senza mai pronunciare le parole crisi ed elezioni. Poi, improvvisamente, i due litiganti si ritrovano a tu per tu, si dicono sanno solo loro cosa e tutto finisce a tarallucci e vino. Conte si alinea immediatamente e invita a riprendere il cammino, facendo propria la posizione di quello dei due che è stato deciso debba avere soddisfazione. In genere capita a turno (da ultimo è stato così per la Tav).

Ovviamente, ciascuno fa il suo gioco ed inquadra sconfitta o vittoria all’interno di un puzzle di cui solo lui conosce l’immagine finale. Forse. Al di là di successi tattici nessuno, tra Salvini e Di Maio, sembra avere una strategia di lungo respiro. Né un’idea guida che possa dare al Paese un governo stabile, con un programma definito e soprattutto realistico. Un’idea guida che tenga conto degli handicap strutturali dell’Italia: debito pubblico da incidere; fiducia dei mercati da conquistare (non l’abbiamo mai avuta); rispetto della legalità e delle istituzioni da ripristinare; magistratura da depoliticizzare e riformare; burocrazia da ricondurre nell’alveo; autonomia regionale da realizzare; salto culturale nell’istruzione pubblica da imporre.

Al contrario, Conte sembra seriamente impegnato ad accumulare titoli politici per una collocazione che lo manlevi da una sudditanza che sente ingiusta e umiliante. E non può che essere europea, visto che una candidatura a premier ha zero chance, al pari della possibilità di guidare un governo diverso dall’attuale. “Bello ma non balla”, dice qualcuno di lui. I triunvirati romani portarono acqua solo al mulino di Augusto che raccolse i cocci di quarant’anni di guerra civile per farsi dichiarare imperatore. Gli altri quattro protagonisti finirono tutti male. Per fortuna, oggi non si usa più il gladio, anche se la penna di giornalisti e magistrati è altrettanto letale. Se non di più. Il Russiagate ancora aleggia sulla testa di Salvini, sebbene rischi di più ogni volta che rifiuta uno sbarco di clandestini, tenendo in rada le navi cui arrivano o a bordo i migranti dopo l’attracco in porto.

Il barometro meteorologico segna brutto tempo, quello politico supera i 1.010 millibar. Ma durerà quanto serve, perché Natale diventi Santo Stefano. E andrà avanti così, senza interruzione di continuità, probabilmente sino alla fine della legislatura. Solo una scissione del Movimento cinque stelle o l’avvio di un’azione penale contro Salvini potrebbero cambiare il modello di dialogo adottato da Di Maio e Salvini per far passare decisioni sgradite ai rispettivi elettori. Ieri Salvini con Savona, reddito di cittadinanza e presidenza Ue e Di Maio col decreto sicurezza, la Tav. Domani uno dei due con l’autonomia regionale e la Flat tax.

Dice il Pd: è il potere a tenere insieme questo governo. Probabile, effettivamente il governo è un ossimoro. Però qualcosina riesce comunque a farla; sempre poco, certo, ma più del niente dei governi Letta, Renzi e Gentiloni. Speriamo solo, inoltre, che duri quanto serve per far sì che dopo il triunvirato sia eletto un leader autorevole e non autoritario come furono Augusto ed i successori.

Aggiornato il 29 luglio 2019 alle ore 13:27