Più che le “patenti di antifascista” servirebbe un ricordo comune di tutte le vittime degli “anni di piombo” contro l’uso politico della violenza.
Una cinquantina di anni fa il Prefetto di Milano Libero Mazza, un cattolico moderato che aveva partecipato alla Resistenza e fu poi Prefetto della Liberazione di Firenze, stilò il 22 dicembre del 1970 un rapporto riservato al ministro dell’Interno in cui si sottolineava che nelle fazioni estreme di destra e di sinistra dello schieramento politico, definiti gli “opposti estremismi”, stava emergendo una clima di violenza che metteva a rischio la sicurezza. Il Prefetto segnalava anche il pericolo che prendessero piede organizzazioni paramilitari di sinistra. Il rapporto fu reso pubblico pochi mesi dopo e scatenò durissime polemiche. Un profeta del giornalismo italiano sentenziò che il Prefetto era stato fazioso. Solo il vice direttore de “La Stampa” Carlo Casalegno, alcuni anni dopo assassinato dalle Brigate Rosse, ne prese le difese. La sinistra, sulla base del principio “nessun nemico a sinistra”, fece un errore gravido di conseguenze sottovalutando l’allarme del Prefetto.
Episodi di intolleranza e di violenza politica si ripetono endemicamente. Qualche mese fa l’irruzione minacciosa di alcuni spavaldi giovani aderenti a una organizzazione di estrema destra in una riunione di cittadini impegnati nell’assistenza agli immigrati, ha fatto tornare alla mente le imprese delle “Guardie Rosse” cinesi, alle quali la “banda dei quattro” fedelissimi di Mao-Tse-tung, aveva affidato il compito di “rieducare i deviazionisti”. Poi si sono moltiplicati gli atti di intimidazione e di aggressione fisica “bipartisan”, i tentativi di impedire manifestazioni politiche autorizzate, la tentata strage di immigrati a Macerata da parte di uno squilibrato “politicizzato”. A questo si sono aggiunti altri episodi inqualificabili come la segnalazione delle case dove abitano cittadini antifascisti e la diffusione di elenchi di nomi e indirizzi di sospetti fascisti.
Per il 25 aprile a Milano si annuncia la solita intolleranza contro i “sionisti” che partecipano al corteo. Del resto la recente campagna elettorale, povera di contenuti ma ricca di violenze verbali e di accuse infamanti non ha aiutato a migliorare il clima. Di tutto questo hanno fatto le spese anche le forze dell’ordine, chiamate spesso a difendere il diritto di parola o il diritto al lavoro, come avviene per gli operai del gasdotto pugliese, che entrano in cantiere protetti dalla polizia.
Il pericolo “fascista” alimenta tuttora accanite polemiche. Nel nostro Paese il neofascismo suscita un rigetto istintivo perché viene percepito come una minaccia alle libertà. Ma di per sé l’essere antifascista non significa essere democratico. Nella guerra di Liberazione il valore unificante era la lotta contro fascisti e nazisti, ma non vi era una visione condivisa di democrazia pluralista, tant’è che alcune forze protagoniste della Resistenza furono duramente e per lungo tempo antagoniste nella vita della Repubblica. Le norme che fanno divieto di ricostituire il Partito fascista vanno applicate, ma non si sconfiggono i nostalgici di casa nostra solo sul terreno giudiziario. I partiti protagonisti della Resistenza e della Liberazione accettarono la presenza del Msi in Parlamento, nonostante fosse costituito da reduci della Repubblica di Salò. Mettere fuori legge le associazione che violano la Costituzione e la legge è compito della Magistratura mentre con il “patentino antifascista”, che le amministrazioni comunali di sinistra di Milano, Padova e Vicenza vorrebbero rilasciare per l’utilizzo del suolo pubblico, si rischia di cadere nel ridicolo e non si va nessuna parte.
Dichiararsi fascista è una affermazione che allarma la comune sensibilità democratica ma non può essere considerato un reato. Ma esiste il pericolo di un ritorno al passato? A parte la ragionevole fiducia nei confronti della tenuta del sistema democratico, il regime fascista in Italia non è, come ricordava Carlo Rosselli, semplicemente riconducibile solo a una cultura di violenza, ma affonda le proprie radici anche nelle contraddizioni, negli errori e nella difficoltà dei partiti democratici di comprendere i cambiamenti del Paese, nelle vicende tormentate del primo dopoguerra e nel tradimento del Re. Così come oggi è sbagliato interpretare come sintomo neofascista la rabbia dei ceti popolari più colpiti dagli effetti negativi di una immigrazione incontrollata. È una seria politica di riforme il miglior antidoto a queste preoccupazioni ma è altrettanto necessario arginare ogni illegalità per allontanare in modo efficace i pericoli autoritari.
Del resto in quella parte d’Europa che ha subito il giogo del Nazismo prima e del Comunismo poi, troviamo il radicamento di una cultura politica e civile che guarda con pari repulsione a queste tragiche esperienze.
Il rispetto dei valori della Costituzione va affermato senza ambiguità con il pregiudiziale rigetto di tutte le forme di violenza fisica e morale. Da questo punto di vista le “motivazioni sociali” non fanno alcuna differenza perché i gruppi di estrema destra e quelli di estrema sinistra sono uniti da una matrice comune, l’uso della forza come forma di azione politica. La violenza che non è né di destra né di sinistra ma solo una minaccia alla convivenza civile e alla libertà di tutti. Per questo occorre un’assunzione collettiva di responsabilità nella difesa dello Stato Democratico. Le vittime della violenza politica negli ultimi cinquant’anni, molti dei quali giovanissimi che avevano solo il torto di militare politicamente in gruppi contrapposti, sono commemorati quasi sempre in un’ottica di fazione.
Perché in occasione delle celebrazione del 25 aprile non scegliere una giornata, accumunando nel ricordo tutte le vittime degli anni di piombo, per affermare il rifiuto della violenza come valore condiviso? Una classe politica all’altezza dei suoi compiti le ricorderebbe insieme, per ricordare a tutti che in una comunità dove viene a mancare il rispetto reciproco non c’è futuro.
Aggiornato il 24 aprile 2018 alle ore 12:19