Bicameralismo e leggi elettorali

Si vive in un periodo nel quale, per mera opportunità politica, si interpreta ad usum delphini la logica delle cose. Intendiamoci, l’ideologismo, cioè il piegare le idee agli interessi di parte attraverso rappresentazioni strumentali, è antico quanto il mondo, ma adesso, a parere di chi scrive, quando sono in gioco istituti costituzionali, si va oltre i limiti dell’onesto.

Ad esempio, dopo la bocciatura referendaria della proposta di riforma costituzionale presentata dal Governo Renzi, s’è alzato un coro, direttore lo stesso capo dello Stato pro tempore, affermante la necessità, data la riconferma del bicameralismo perfetto, di due leggi elettorali omogenee. È vero esattamente il contrario. Il sistema bicamerale perfetto esprime la concezione liberale della rappresentanza nazionale, in cui la sovranità appartiene al popolo, ma concepito come un tutto giuridicamente organico, nelle sue differenti articolazioni, che quindi debbono essere rappresentate in Parlamento in modo differenziato nelle due diverse camere.

Questa concezione si differenzia da quella radicale della sovranità popolare, intesa come espressione della maggioranza meramente numerica dei consociati riuniti in assemblea, che si esprime in un Parlamento unicamerale. Nel 1800 i radicali ebbero a modello la Costituzione di Cadice, monocamerale; i liberali la Costituzione Britannica, messa per iscritto nella Costituzione francese di Luigi XVIII, riformata da Luigi Filippo, a cui si ispirò lo Statuto Albertino. Nella espressione britannica la differenziazione fu data dalle grandi famiglie del regno e dalle figure eminenti elette tra i Pari dal Sovrano, rappresentati in una Camera Alta ereditaria, e i cittadini elettori indifferenziati in una Camera bassa; simile la Costituzione di Luigi XVIII; nello Statuto Albertino il Re nominò i senatori, ma non a titolo ereditario e dovendoli scegliere tra categorie di competenza predeterminate.

Alla concezione liberale della sovranità nazionale corrispose anche la Costituzione napoleonica del Regno d’Italia del 1805, nella quale la rappresentanza nazionale era eletta dai distinti collegi del possidente, degli industri e dei dotti. Negli Stati Uniti d’America, come evidenziò il dibattito nella Convenzione costituente di Filadelfia, ci si volle attenere al precedente britannico, e siccome il ruolo di potere costitutivo dello Stato, che in Gran Bretagna svolsero le grandi famiglie feudali, si ritenne che in America settentrionale fosse rappresentato dagli Stati federati, e si previde, accanto alla Camera dei rappresentanti, un Senato nel quale fossero partecipi gli Stati federati, nella misura di due eletti per ciascheduno, a prescindere da ampiezza del territorio e popolazione. Nel momento in cui gli Italiani hanno scelto di mantenere il bicameralismo perfetto, quindi, ci si dovrebbe chiedere non di come rendere omogenee ma, al contrario, di come differenziare le leggi elettorali fra le due camere, in ragione dell’articolarsi della Nazione.

Nel primo circa trentennio di vita della Costituzione del 1947-’48, le leggi elettorali espressero la rappresentanza alla Camera dei deputati mediante un sistema proporzionale di lista ed espressione di voti di preferenza; quella al Senato mediante un sistema proporzionale di lista a livello regionale, a candidatura uninominale su base provinciale. Si può discutere se quello sia ancora uno schema sufficiente per rappresentare l’articolazione sociale reale della Nazione, meritevole di rappresentanza, ma leggi elettorali omogenee che trasformassero il bicameralismo perfetto in un monocameralismo mascherato sarebbero l’ennesima falsificazione ideologica della volontà popolare espressa per referendum.

Aggiornato il 10 ottobre 2017 alle ore 21:58