Scissioni e Sinistra

Un aforisma, un commento - “In biologia, la gemmazione e la frammentazione sono due modalità di riproduzione asessuale. In politica, si chiama scissione. In ambedue i casi, si riproduce esattamente ciò che già c’era”.

Nei suoi anni d’oro, la Democrazia Cristiana era un magma compatto tenuto assieme dall’esercizio del potere e le sue correnti interne, numerose e assai diverse per orientamento, non hanno mai nemmeno lontanamente pensato alla scissione perché ciò le avrebbe relegate in un’area del tutto marginale e ininfluente.

Nella sinistra italiana, al contrario, sembra che la scissione sia una sorta di obbligo morale, un rito purificatorio che, dal 1921 con il congresso di Livorno, spinge qualche minoranza ad alzarsi in piedi e ad allontanarsi sdegnosamente da una maggioranza ogni volta indicata come arrendevole nei confronti del capitalismo. Le scissioni del Pci, in effetti, sono sempre state a sinistra, mai verso il centro. Esse hanno dato luogo a un elenco infinito di partitini: Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Partito Democratico di Unità Proletaria, Partito Democratico della Sinistra, Sinistra Democratica, Partito Comunista d’Italia, Partito della Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, ecc.. Senza dimenticare le “costole” estremiste dei super-puri rivoluzionari aggregatisi nei gruppuscoli di triste memoria.

Ma da dove viene questa insanabile attitudine alla divisione da parte di un movimento che, al grido di “unire la sinistra!”, e invocato da “L’Unità”, finisce poi per frantumarsi continuamente? La risposta non può che trovarsi nell’origine dogmatica dell’ideologia comunista, rigida, incapace di flessioni e quindi incline a frantumarsi.

Il fatto è che, nonostante ben pochi di loro abbiano letto Marx, per tutti i comunisti l’idea centrale consiste nella pretesa di “sapere” in via definitiva quale sia la causa di qualsiasi problema sociale: il capitalismo, ossia un sistema di criteri politici ed economici entro cui pochi, i biechi capitalisti, possono sfruttare i molti. Di conseguenza, sarebbe sufficiente eliminare il capitalismo, e, se occorre, i capitalisti, per conseguire quello che Marx ed Engels chiamavano la “società comunistica perfetta”, senza sfruttatori e senza sfruttati, fatta di uomini uguali e liberi nonostante una comunista come Raya Dunayevskaya, segretaria di Leon Trotsky, avesse avvertito che la libertà è, essenzialmente, libertà di essere diversi.

Questa struttura semplificata di pensiero si coniuga poi con la necessaria dotazione di “odio di classe”. Un sentimento dai confini imprecisati ma che, se da un lato, fornisce la carica giusta per l’azione politica, dall’altro introduce un’ambiguità quanto mai presente in molti comunisti, quella per la quale è spesso difficile capire se un comunista sia mosso dall’amore per i deboli o, appunto, dall’odio per i forti. E, se uno ci pensa bene, non si tratta affatto delle due facce della stessa medaglia perché a decidere un atteggiamento, alla fine, è sempre un sentimento dominante e, nel caso dei comunisti, è quasi sempre arduo capire quale esso sia. Di fatto, fra fumi ideologici e sentimenti ambigui, il dogmatismo non lascia spazio ad aree di incertezza, compromesso o moderazione.

Il risultato è che la gemmazione genera insiemi di uomini, generalmente coordinati da qualche più o meno piccolo leader, convinti di essere i “veri” depositari del verbo marxista, della capacità di individuare gli obiettivi politici su cui puntare e i nemici contingenti da abbattere. Fra questi ultimi, va da sé, vengono così indicati proprio i partiti-madre, da cui di volta in volta ci si scinde, rei di revisionismo, indebolimento ideale e, dunque, disponibili a qualche compromesso con il capitale e le sue istituzioni.

Certo l’attuale, ennesima scissione del Pd e la nascita della sua immagine speculare Dp (che farà sicuramente la felicità degli elettori, costretti a destreggiarsi fra due lettere alfabetiche identiche) si sta svolgendo in termini un po’ diversi da quelli che caratterizzarono Livorno. Ma, sotto la superficie, le cose sono sempre le stesse e gravitano attorno alla stessa ottusità di sempre: l’incomprensione della natura umana da un lato e del ruolo indispensabile della libertà economica per ottenere la tanto attesa “crescita”, senza la quale nessun progetto politico sarà mai in grado, dopo aver abbattuto i ricchi, di dare benessere ai poveri.

Aggiornato il 07 aprile 2017 alle ore 18:06