Se Davigo parla come il giudice Riches

Al presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), dottor Piercamillo Davigo, quando era il “dottor Sottile” del pool milanese all’epoca di “Mani Pulite”, viene attribuita la frase: “Rivolteremo l’Italia come un calzino”.

In realtà il dottor Davigo quella frase non l’ha mai pronunciata; il copyright, se così si può dire, è di Giuliano Ferrara, ed è comunque la buona sintesi di quello che i magistrati e altri centri di potere hanno fatto in quegli anni. Del dottor Davigo è invece il concetto che l’umanità, sostanzialmente, si divide in due: i colpevoli, e quelli di cui la colpevolezza non si è potuta accertare. Ed è un perfido umorismo, quello del dottor Davigo, che si manifesta in tante occasioni. L’ultima, nel corso di una recente puntata del programma televisivo di Bruno Vespa, “Porta a Porta”. Non pretendo di essere letterale, ma credo di rispettare il senso delle affermazioni del dottor Davigo: ci sono i colpevoli, e li mettiamo da una parte. Ma non si può sostenere che ci siano anche quelli che colpevoli non sono. Semplicemente, quelli che definiamo errori giudiziari sono casi in cui non si sono raccolte le prove sufficienti per poter condannare l’imputato; e quand’anche quest’ultimo viene assolto, non si tratta di errore del magistrato inquirente; piuttosto sono gli investigatori che non hanno raccolto elementi sufficienti per consentire alle giurie di emettere una sentenza.

Credo che molti nell’udire queste parole abbiano provato un brivido correre lungo la schiena. Dopo aver sentito il dottor Davigo sono andato a recuperare un libro, pubblicato, pensate, nel 1976. Un libro di Leonardo Sciascia: “Il contesto”. In un passaggio del libro il commissario Rogas, alle prese con una serie di misteriosi delitti eccellenti, ha un colloquio con il giudice Riches, presidente della Corte Suprema. I due parlano della giustizia e di come viene amministrata. Il giudice Riches dice: “... Prendiamo la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo”.

Timidamente il commissario obietta: “E i gradi di giudizio, la possibilità dei ricorsi, degli appelli...”.

Riches non ammette obiezioni: “Postulano, lei vuole dire, la possibilità dell’errore... ma non è così. Postulano soltanto l’esistenza di un’opinione diciamo laica sulla giustizia, sull’amministrazione della giustizia. Un’opinione che sta al di fuori. Ora quando una religione comincia a tener conto dell’opinione laica, è ben morta, anche se non sa di esserlo. E così è la giustizia, l’amministrazione della giustizia...”; e infine la causa dello sfacelo, o del principio dello sfacelo è da attribuire agli illuministi francesi e in particolare al ‘Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas’ di Voltaire: è stato il punto di partenza dell’errore: dell’errore che potesse esistere il cosiddetto errore giudiziario... Naturalmente, questo errore non sorge dal nulla né resta così, isolato o quanto meno isolabile: ha tutto un humus, tutto un contesto... il punto debole del trattato di Voltaire, il punto da cui io parto per rimettere le cose in sesto, si trova proprio nella prima pagina: quando pone la differenza tra la morte in guerra e la morte, diciamo, per giustizia. Questa differenza non esiste: la giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra. C’era anche ai tempi di Voltaire, ma non si vedeva... Mi spingerò a un paradosso, che può anche essere una previsione: la sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo...”.

Ecco, il dottor Davigo nell’esprimere l’opinione che coltiva sulla giustizia e su come va amministrata è molto simile al giudice Riches. Per parte nostra, stiamo con il commissario Rogas e di conseguenza con Voltaire e gli illuministi francesi, che ci sono molto cari e riteniamo preziosi. Cari e preziosi, in modo radicale: in quel modo inteso da Marco Pannella e da Leonardo Sciascia. Probabilmente non siamo molti a cui le affermazioni del dottor Davigo hanno provocato particolare reazione. Politici, colleghi del dottor Davigo, avvocati, opinionisti, commentatori... forse sono d’accordo con il dottor Davigo; ed è inquietante. Forse la cosa li lascia indifferenti, e l’inquietudine cresce. Forse non sono d’accordo con il dottor Davigo, ma hanno il timore di esternare questo loro dissenso. In questo caso, l’inquietudine dilaga: di cosa hanno timore, cosa temono possa accadere che già non sia accaduto e non accada? È un benefico tormento che auguro a tutti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:45