Se lo scenario nazionale ci regala una politica immobile, bloccata, all’estero (nello specifico in India) emerge come l’Italia navighi a vista sulla vertenza dei marò. Al di là dei proclami che contraddistinguono un Paese in continua campagna elettorale, sembra che il Governo abbia le mani legate, che nulla possa per scongiurare una pesante condanna in India. Intanto il resto del mondo, soprattutto quello anglosassone, ci snobba e non interviene a favore dell’Italia: eppure sappiamo quanto pesino nell’ex Commonwealth i consigli di Londra. “Aspettare”, questo è il massimo che i nostri ministri riescono a dire ai beninformati del palazzo. Intanto la difesa dei marò, affidata all’Avvocatura dello Stato, non si discosta tanto dalla linea dell’Esecutivo, e confida nella clemenza della corte indiana. In questo scenario sfuggente, acquista grande rilevanza la missiva al Capo dello Stato scritta dell’ammiraglio Falco Accame: quest’ultimo presiede due associazioni, una tutela i militari vittime in servizio e l’altra i diritti dei naviganti.
L’ammiraglio Accame auspica la riunione del Consiglio Supremo di Difesa (Csd), per chiarire i numerosi e controversi aspetti della situazione che s’è generata a seguito della vicenda dei marò. Il Csd è presieduto dal presidente della Repubblica ed è composto (secondo i vari accorpamenti e cambiamenti di denominazione) dal presidente del Consiglio dei ministri che ha anche funzioni di vicepresidente, dal ministro degli Esteri, dal ministro dell’Interno, dal ministro dell’Economia e Finanza, dal ministro della Difesa, dal ministro dello Sviluppo economico e dal Capo di stato maggiore della Difesa. Il Consiglio Supremo di Difesa esamina i problemi generali relativi alla difesa nazionale, e in base delle direttive generali di Governo e Parlamento: dal Csd scaturiscono analisi vincolanti per il presidente della Repubblica come per il Consiglio dei ministri (per i singoli ministeri) e il comandante delle forze armate e tutte le aree di competenza.
L’ammiraglio Accame giustifica questa richiesta con una serie di motivazioni che, nel caso in questione, hanno due finalità: riportare quanto prima in patria i due fucilieri ed attivare una autocritica istituzionale, che costituisca un valido insegnamento per il futuro. In primis, si afferma con forza che ogni sforzo debba essere compiuto per un’attenta valutazione delle reali responsabilità dei marò. A tale scopo, l’ammiraglio pone all’attenzione del presidente Napolitano la tesi formulata dal comandante Diego Abbo, secondo cui la morte dei pescatori potrebbe essere stata provocata dal rimbalzo sull’acqua (spiattellamento) dei proiettili. Il rapporto del comandante Diego Abbo denuncia “varie criticità” sul piano sia della balistica che della condotta della navigazione (la “mancata accostata a destra” di due navi in rotta di collisione): “ma - dice Accame - ve ne sono anche altre che richiedono ulteriori accertamenti”.
La perizia del comandante Abbo era già stata posta in evidenza da L’Opinione con una serie di articoli (l’ultimo il 4 gennaio 2014). Nella pubblicazione de L’Opinione (“L’intrigo dei marò imbarazza l’Italia”) veniva segnalata l’analisi fatta da un ufficiale della Marina italiana, il capitano di fregata Diego Abbo: autore di una perizia approfondita ed inoppugnabile sulla vicenda dell’Enrica Lexie. Perizia inspiegabilmente soffocata da un “tappo di gomma istituzionale”. Infatti, lo studio del comandante Abbo (pubblicato on-line il 22 novembre 2013) ha il puro scopo di contribuire a risolvere la vertenza. Ma, il conclamato immobilismo italiano ha inviluppato nell’iter gerarchico anche la perizia: quest’ultima “preventivamente e formalmente notificata ai superiori con la doverosa osservanza del naturale iter gerarchico - sottolinea Abbo - mediante richiesta di colloquio sia allo Stato Maggiore della Marina Militare che direttamente al ministro della Difesa”.
La perizia è stata pubblicata da Abbo come “uno studio scientifico diviso nei tre macrodomini pertinenti”: il diritto internazionale, la balistica terminale e l’evoluzione cinematica tra Enrica Lexie e St. Antony. Lo studio fatto da Abbo è di notevole importanza. Infatti, la linea difensiva ufficiale dell’Italia, ossia “non siamo stati noi”, non ha più alcuna rilevanza. Poi s’è rivelata valutazione del tutto risibile che, il barchino dei pirati che ha attaccato l’Enrica Lexie fosse altra cosa dal peschereccio St. Anthony. Inoltre, accusare la procura indiana d’aver manipolato le prove non ci ha fatto fare una bella figura, oltre a non cavare il ragno dal buco. Tra l’altro, nessuno tra i tanti “tromboni ben informati” s’è domandato “se non siamo stati noi, qual è la misteriosa ragione per cui l’allora ministro Di Paola ha provveduto alla liquidazione dell’indennizzo alle famiglie dei due poveri pescatori uccisi?”. Oggi, anche l’ammiraglio Accame riconosce che, grazie allo studio di Abbo, si possono individuare le logiche motivazioni per affermare che il St. Antony non venne colpito da tiro diretto.
Così i marò avrebbero colpito per mera casualità il peschereccio: il rimbalzo dei colpi dimostra chiaramente la “non volontà di colpire”. Poi le integrazioni di Abbo avrebbero una forte validità processuale, concorrendo a rafforzare l’inversione di tendenza nell’atteggiamento dell’Italia, come auspicato dall’ammiraglio Accame. “Le responsabilità dei marò potrebbero essere attenuate se l’Italia ammettesse che il loro mandato era stato impropriamente “accresciuto” oltre il dovuto - ricorda Accame al presidente Napolitano - La inopportunità di utilizzare personale del San Marco era del resto anche segnata dal fatto che il reggimento S. Marco ha precipuamente compiti legati ad operazioni di sbarco in attività belliche e non a compiti di polizia marittima e ancor meno di antipirateria marittima.
Credo sia doveroso inoltre ammettere che da parte italiana vi è stato un grave errore di valutazione nel confondere un traballante peschereccio, tra l’altro carico di reti, che può fare sì e no 10 nodi, con una lancia d’assalto capace di sviluppare 20 o 25 nodi e di ben altra ‘configurazione nautica’ rispetto al peschereccio (un po’ come confondere un auto di uso cittadino con un auto da gran premio). Di particolare rilievo il fatto che ciò sia potuto accadere avendo la nave ben due comandanti a bordo, mentre l’errore potrebbe essere ammesso per insufficiente esperienza di comando da parte dei due giovani sottufficiali (comando implicitamente assunto al momento della decisione di far fuoco) - sottolinea Falco Accame - È bene non dimenticare che la Procura militare di Roma espresse per la vicenda dei marò una valutazione di “violata consegna aggravata” (e anche di dispersione di armamenti militari).
Gli atti vennero trasmessi alla procura ordinaria per “omicidio preterintenzionale”. Quindi anche in ambito italiano erano state individuate delle responsabilità che però, a mio parere, non fanno capo solo ai marò, ma anche a chi ha affidato dei compiti assolutamente impropri ai marò e ha istituito una legge contemplante modalità di ingaggio, nella quale vengono tra l’altro “stralciate” le responsabilità del comandante e dell’armatore - scrive l’ammiraglio Accame - La questione delle errate disposizioni di ingaggio richiama purtroppo un’altra grave vicenda italiana, la questione dell’affondamento dell’imbarcazione albanese Kater I Rades, il cui caso riassumo in allegato per i riflessi indiretti che possono venirvi riscontrati in rapporto alla vicenda dei marò - precisa l’ammiraglio - Ritengo anche, per incidere sull’atmosfera processuale - scrive Accame al presidente Napolitano - potrebbe essere giovevole far pervenire al governo indiano il più sentito cordoglio per quanto accaduto, un cordoglio espresso al più alto livello politico possibile. Tenuto conto anche dell’umanità dimostrata dall’India nell’aver consentito per due volte l’invio in Italia dei marò, ed in considerazione dei forti vincoli che all’India ci legano”.
L’ammiraglio Accame chiede espressamente al Capo dello Stato d’intervenire sul Consiglio Supremo di difesa: struttura che certo non brilla per attività. Sarà forse una coincidenza, ma del Consiglio di Sicurezza è parte integrante l’attuale Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Binelli, che all’epoca dei fatti autorizzò, tramite l’ammiraglio Marzano, l’ingresso della Enrica Lexie nel porto di Kochi. In sostanza Binelli autorizzò la consegna dei nostri soldati nelle mani indiane. La sciagurata autorizzazione godeva peraltro dell’avvallo dell’allora capo di stato maggiore della marina, l’ammiraglio Branciforte, che ordinò all’addetto navale italiano (che risiede a Nuova Delhi) di presenziare alle operazioni d’arresto dei marò quando la Lexie fosse attraccata nel porto di Kochin. Con tale autorizzazione (di fatto un ordine di consegna per i nostri militari) si permetteva che una nave con due cittadini italiani (due militari, due padri di famiglia…) entrasse nelle acque territoriali di un paese, l’India, dove vige la pena di morte.
La lettera dell’ammiraglio Accame al Capo dello Stato si propone due obiettivi: ascoltare Abbo, onde impiegare il suo lavoro al meglio ed in modo corretto, e attivare finalmente un’indagine su tutta la gestione della vicenda. Definire le responsabilità, pur con qualche autocritica, potrebbe farci apprezzare come una nazione più seria. Approcciando l’India con nuove e determinanti frecce al nostro arco, e sempre col fine ultimo di riportare in Italia i due militari.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:02