Ha vinto o perso ieri Berlusconi? E ha vinto Alfano? Intendiamoci, ormai Berlusconi non può più vincere. Sta per decadere da senatore, andrà ai servizi sociali o ai domiciliari e non tornerà più al governo. Forse sarà anche arrestato. Che aprendo la crisi avesse intenzione di salvarsi e scongiurare questi esiti è da escludere. E probabilmente aveva messo anche nel conto di non riuscire a far cadere Letta. Però, avendo contribuito alla nascita di un governo di pacificazione – e tutti ricordiamo la retorica di quei giorni nelle parole di Letta e nella commozione del presidente Napolitano – e ritrovandosi, invece, in un governo di “deberlusconizzazione” a tappe forzate, che sembra aver intenzionalmente vivacchiato per mesi (sia nelle scelte economiche che sulle riforme), in attesa della sua decadenza, persino anticipata, e della conseguente spaccatura del Pdl, Berlusconi non poteva non reagire in qualche modo.
Avrebbe potuto anche rassegnarsi alla “deberlusconizzazione” del Parlamento, ma non a quella del suo partito. Di errori ne ha commessi molti. Sentendosi forte, all’indomani del voto e dopo la figuraccia del Pd, ha accettato una lista di ministri che prefigurava già il piano di Letta e Alfano, una divisione tra “buoni” e “cattivi” del Pdl. Una squadra di ministri che coincideva guarda caso con i big presenti alla manifestazione “Italia popolare” al Teatro Olimpico, che già prima delle elezioni erano pronti ad abbandonarlo per Monti. E i quali, poi, devono aver pensato che fosse meglio entrare in Parlamento a bordo del “tram Berlusconi”, che garantisce sempre buoni numeri, e rinviare l’operazione.
Berlusconi avrebbe potuto giocare altre carte anche all’indomani della sentenza di condanna della Cassazione: sebbene comprensibile il suo stato d'animo, avrebbe potuto avviare con Napolitano una trattativa per ottenere non vie d'uscita che era del tutto irrealistico che potesse concedere (figuriamoci pretenderle dal Pd), ma un vero patto politico sulle riforme per il quale il presidente avrebbe potuto spendersi, e dal quale il Cavaliere avrebbe potuto trarre una nuova legittimazione politica, nonostante la condanna e l’esclusione dal Parlamento. Non è detto che gli sarebbe stato concesso, ma certo un tentativo onorevole e più realistico. Vedendosi nelle ultime settimane sempre più accerchiato e ferito, e avendo fiutato il doppio gioco dei suoi ministri, ha deciso di rompere l’assedio, di non accettare passivamente il ruolo di vittima sacrificale e almeno di fare chiarezza tra i suoi.
È vero che la “deberlusconizzazione” e la spaccatura del partito si sarebbero probabilmente verificate per inerzia, dopo la decadenza e l’esecuzione della sentenza Mediaset, e quindi era questa l’ultima finestra utile per tentare di salvare il salvabile, ma i fatti dimostrano che i tempi erano sbagliati. Nessuno era davvero pronto per una crisi del governo Letta, nemmeno Berlusconi. Figuriamoci il Paese, la stessa opinione pubblica di centrodestra, o i gruppi di “potere” e i partner internazionali. Probabilmente aspettando ancora qualche mese, osservando l’andamento dell’economia e facendo maturare la delusione per l’immobilismo e il minimalismo del governo, avrebbe fatto apparire meno “irresponsabile” la crisi, non legata alla sua decadenza (già avvenuta), e meno attraente la scissione governista di Alfano.
Ma, appunto, forse questo tempo non c’era. Ultimo errore: il sì al voto di fiducia una volta intrapresa così inequivocabilmente la via della crisi di governo. È vero che Letta, Napolitano e il Pd speravano in un no, quindi nel sostegno incondizionato di un pezzo di Pdl finalmente deberlusconizzato e alfanizzato, e il Cav li ha spiazzati, almeno finché non si formeranno i gruppi scissionisti. E certo, a latte versato potrà sempre rivendicare l’ulteriore atto di “responsabilità” e l’estremo tentativo di tenere unito il Pdl. Ma il sì ha posto Berlusconi in un limbo di irrilevanza: non può far sentire il proprio peso dall’opposizione ed è chiaro a tutti che Letta ha ormai i numeri di Alfano per andare avanti, non ha più bisogno di quelli del “giaguaro”.
Ma soprattutto ha trasformato quello che sarebbe potuto essere un “25 luglio” in un “8 settembre”, in un “tutti a casa” nel suo partito, come osservato da Ferrara sul Foglio. Ha perso l’ala governista, pronta comunque alla scissione (o a prendersi il partito), e il suo esercito anziché ridotto ma compatto è in rotta: quanti erano disposti a seguirlo si sono sentiti traditi, ora temono purghe interne (per ricucire Alfano ne chiederà l’esclusione da ruoli di rilievo) e comunque faranno fatica ad esporsi nuovamente. Ha quindi concesso ad Alfano una leva insperata, e forse decisiva, per prendersi il Pdl anziché andarsene da “traditore”. A proposito di Alfano. Svolta la funzione di “deberlusconizzare” la maggioranza diventa numericamente determinante per Letta, rischiando però di contare meno politicamente.
Da una scelta come quella di dividersi da Berlusconi, o di marginalizzarlo nel suo partito, per sostenere un governo di coalizione (non più di “larghe intese”) con il Pd non si può tornare indietro. Se lo si fa, si ammette di aver avuto torto e si sparisce. Dunque, da oggi per Alfano il governo Letta diventa l’unico orizzonte possibile e sarà molto difficile che riesca a porre con la necessaria forza delle priorità e condizioni programmatiche. Per esempio, nell’indifferenza generale Saccomanni ha fatto sapere che la questione dell’aumento dell’Iva è chiusa. Cosa ha da dire Alfano? D’altronde, già in questi primi mesi i ministri del Pdl si sono comportati come se così fosse, facendo passare qualsiasi nefandezza fiscale, fino al pasticcio indecoroso che stava per essere varato per rinviare l'aumento dell’Iva.
A conclusione dell’esperienza di governo, cosa sarebbe in grado di rivendicare come proprio specifico apporto agli occhi dell’elettorato di centrodestra? Ah, già, gli elettori, cerchiamo di non dimenticarceli, perché prima o poi si vota. E alla fine toccherà ad Alfano, sia che conquisti il Pdl sia che formalizzi la rottura, dimostrare le buone ragioni della propria scelta. È del tutto evidente che un futuro politico dopo Berlusconi esiste. È legittimo, anzi auspicabile, che “falchi” e “colombe” si sforzino di darsi un futuro politico. Ma può esistere senza ciò che Berlusconi nel bene e nel male ha incarnato e rappresentato in questi vent’anni? Può esistere, senza un’idea fusionista di centrodestra, senza il bipolarismo, e sacrificando alcuni contenuti che nonostante le promesse non mantenute sono stati centrali (per esempio, tasse e giustizia)? “Noi difenderemo sempre Berlusconi, ma il governo Letta è un’altra cosa”, è un’ipocrisia o un’ingenuità (o entrambe).
Significa restare al suo fianco sul piano personale, ma su quello politico accettare l’idea che la sua condanna ed esclusione della vita politica riguarda solo lui, che anche se è un’ingiustizia la vita continua, “the show must go on”, quindi significa abbandonare la battaglia per una giustizia non politicizzata. Non può essere così se si vuole avere un futuro politico nel centrodestra dopo Berlusconi. Non si tratta di pretendere dal governo, dal Pd, o da Napolitano, di “salvare” Berlusconi. Ma bisogna avere la capacità, la volontà e la forza di porre la questione politicamente e non accontentarsi, come fa Cicchitto, di dire “saremo sempre garantisti e contro la magistratura politicizzata, ma scusate, ora siamo indaffarati e purtroppo il Pd sappiamo come la pensa”, riducendola a mera testimonianza. Oggi ad essere sacrificato sull’altare della “stabilità” sarà il tema della giustizia, domani la questione fiscale, e dopodomani chissà, magari ci si sveglia ma sarà troppo tardi.
Dunque, a chi scrive sembra che da mesi nel Pdl, per garantirsi un futuro politico nel centrodestra, ci sia una gara a chi riesce a trafugare la salma politica di Berlusconi, a portarla dalla propria parte e ad esibirla nella propria teca, per poter rivendicare il titolo di successore. Quello che nessuno pare aver capito è che davvero la leadership di Berlusconi non è qualcosa che passa di mano per eredità. Si conquista sul campo incarnando ciò che lui ha rappresentato per l’elettorato di centrodestra. Al di fuori, sono tutti destinati all’irrilevanza. La nuova Dc a cui pensano gli alfaniani rappresenterebbe comunque solo una parte del popolo di centrodestra, non marginale ma minoritaria, sarebbe per la sinistra un avversario da battere agevolmente o, al massimo, da cooptare in un governo di coalizione qualora il Pd non veda alla propria sinistra numeri sufficienti e forze responsabili con cui governare.
D’altra parte, il rischio che la nuova Forza Italia si riveli numericamente consistente ma politicamente marginale, perché mera ridotta post-berlusconiana, nostalgica e rancorosa, priva di vocazione maggioritaria, di governo ed europea, c’è tutto. In un partito può (forse deve) vigere la regola che l’ultima parola sul da farsi spetta al leader. Ma non può vigere la regola dell’ultimo che riesce a convincere l’anziano ed esausto leader, in un gioco interminabile di piroette. Entrambe queste fazioni stanno più o meno inconsapevolmente lavorando ad una Terza (Prima?) Repubblica di cui il Pd è destinato ad essere perno centrale. Grazie alla probabile correzione in senso proporzionalista della legge elettorale (premio di maggioranza meno generoso), e alla nuova “conventio ad excludendum” delle estreme (post-berlusconiani, ex An, Lega e Grillo), il Pd potrà avvantaggiarsi delle divisioni nel centrodestra e restare sempre al governo, sia che l’elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo al “centro” dei presentabili).
Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 10:48