Dev'esserci un virus che gira ai piani alti di Palazzo Chigi e via XX Settembre. Una specie di narcotizzante. Chiunque entri in quelle stanze, o è colto da uno stato di «letargia» come il premier Letta (copyright “Financial Times”), o dismette (è invece il caso di Saccomanni) i panni dell'economista prodigo di analisi e soluzioni per vestire quelli del mero contabile, restìo ad assumersi la responsabilità di un indirizzo politico e timoroso di toccare lo status quo, fino a farsene persino custode. E' stato molto deludente il ministro dell'economia non solo e non tanto nel merito delle sue risposte su Iva e Imu, durante il question time al Senato, ma innanzitutto nell'approccio. Da economista, da ministro, avrebbe potuto spiegare che scongiurare l'aumento dell'Iva e/o eliminare l'Imu sulla prima casa non sono priorità per la nostra economia, o che i tagli alla spesa necessari a coprirli sarebbero ancora più dannosi.
Sostenendo, invece, che quelle misure costano 8 miliardi e che non ci sono risorse per finanziarle ha dimostrato un approccio meramente da contabile, che non è consentito a un ministro, il cui compito è trovarle quelle risorse, per realizzare gli impegni annunciati e ufficializzati, e non limitarsi a constatare l'esistente. Anche perché l'economista, a differenza del contabile, dovrebbe sapere che la domanda di beni non è assolutamente rigida: i 4 miliardi derivanti dall'aumento dell'Iva al 22% e già messi a bilancio potrebbero non arrivare comunque, perché i cittadini potrebbero decidere, come conseguenza dell'aumento, di comprimere ulteriormente i loro consumi, e potrebbero aumentare le imprese, gli esercizi commerciali, costretti a chiudere, con conseguente perdita di gettito per lo Stato su altri fronti. Si dirà che il consumatore non può percepire un aumento dell'Iva dell'1% sul singolo bene che intende acquistare.
Pur senza considerare che il clima di sfiducia alimentato da un nuovo aumento di tasse può scoraggiarlo dall'acquisto di beni ben oltre l'effettivo rincaro, la sua capacità di spesa diminuisce comunque (si calcola tra i 50 e i 200 euro in meno l'anno a famiglia), a prescindere dalla sua percezione: il che significa, a fine anno, una minor quantità di beni acquistati. E l'aumento dell'Iva incentiva o disincentiva l'evasione fiscale? Ma intendiamoci, l'approccio contabile non è una colpa esclusiva di Saccomanni. E' ormai l'atteggiamento prevalente in Europa, dove non si ragiona più sugli effetti espansivi o recessivi delle misure di politica fiscale. Ci si accontenta che i conti tornino da un punto di vista esclusivamente ragionieristico, anno per anno. E pazienza se proprio averli fatti tornare sulla carta sarà all'origine dello sforamento nell'anno successivo.
Ma c'è chi non si rassegna a sentirsi dire che non ci sono soldi, che i conti sono questi e non possiamo farci niente. Non è così, è una pericolosa mistificazione a cui l'opinione pubblica rischia di arrendersi. «L'Imu, se dovesse essere eliminata definitivamente, comporterebbe un onere di finanziamento di 4 miliardi all'anno che, se si aggiungono ai 4 miliardi per l'Iva, fanno ipotizzare la necessità di interventi di tipo compensativo di estrema severità, che al momento attuale non sono rinvenibili». Queste le parole esatte del ministro Saccomanni. La risorse per scongiurare l'aumento dell'Iva «non sono rinvenibili»? O piuttosto, a non essere «rinvenibile» è la volontà politica di cominciare davvero, non per finta, a tagliare la spesa pubblica? Con una spesa pubblica che è all'incirca la metà del Pil, cioè del totale della ricchezza prodotta nel nostro paese, con un patrimonio pubblico (solo l'immobiliare vale 350 miliardi e più di euro, per non parlare di partecipazioni e municipalizzate) che si può decidere di dismettere (riducendo il nostro stock di debito e quindi risparmiando sugli interessi), con 250 miliardi di tax expenditures e decine di miliardi di sussidi – platealmente improduttivi – alle imprese, con sprechi e inefficienze della pubblica amministrazione sotto gli occhi di tutti, è inaccettabile che ci si dica che l'aumento dell'Iva è «inevitabile».
Si tratta di scelte, di priorità. Evidentemente, rispetto a scongiurarlo il governo ritiene prioritario mantenere ogni singolo centesimo degli oltre 700 miliardi di spesa pubblica. Se vuol farci credere che sia impraticabile una manovra finanziaria sull'1% del bilancio (8 miliardi servono per evitare l'aumento Iva ed eliminare l'Imu sulla prima casa), allora è inutile averlo e pagarlo un governo. Non ci si può rassegnare a constatare che i “soldi non ci sono”. I soldi ci sono, e tanti: gli italiani versano una quantità enorme di tasse, si tratta di decidere come spenderli. Il premier Letta si riempie la bocca di «lavoro». Ma è la crescita che crea lavoro, non il contrario. La defiscalizzazione e la decontribuzione ipotizzate per le nuove assunzioni di giovani è una buona cosa, ma rischia di funzionare poco (soprattutto se il budget sarà, come sembra, di un solo miliardo), perché se non c'è domanda di produzione di beni e servizi, comunque le aziende non assumono.
Lo ha spiegato molto bene al “Sole24Ore” l'ad e presidente di Prada, Patrizio Bertelli: «Le aziende assumono se hanno bisogno di aumentare la produzione, ma se c'è crisi dei consumi e nessuno, in Italia, vende più alcunché, come fanno ad assumere? Non parlo di Prada, noi andiamo benissimo (...) Ma tutte le altre imprese, piccole e medie, che in Italia sono la stragrande maggioranza e che hanno fatturati in forte calo, come fanno ad assumere?». Il problema è la mancanza di potere d'acquisto degli italiani, legata ai salari effettivi erosi dalle pretese fiscali dello Stato: «Non esiste altro paese in Europa e forse al mondo – sottolinea Bertelli – con una differenza così alta tra quello che un lavoratore costa a un'azienda e quello che il lavoratore percepisce in busta paga... Lo Stato deve ridurre del 10% il prelievo sullo stipendio lordo».
Il che rilancia come priorità tutti quegli interventi che possono aumentare il potere d'acquisto: il taglio del cuneo fiscale, ovviamente, ma anche dell'Imu e dell'Iva. Invece, siamo al paradosso che nei confronti internazionali, anziché sforzarci di adeguarci ai livelli inferiori di costo del lavoro, dell'energia, e di tassazione, corriamo ad allinearci solo laddove – e sono delle eccezioni – i livelli sono più alti dei nostri. Così ecco che “finalmente” la tassazione sugli immobili è su un livello paragonabile a quelli europei. Ma non contenti, la Banca d'Italia, in quella che appare come una vera e propria istigazione a tassare, segnala al governo che «in Italia le imposte sulle successioni e le donazioni sono decisamente inferiori al resto dell'Europa». Di adeguarci ai livelli Ocse, o europei, per quanto riguarda il tax rate sulle imprese, le imposte dirette e indirette, o almeno la pressione fiscale complessiva, ovviamente non se ne parla nemmeno. Velocissimi a prendere il peggio, mai capaci di imitare il meglio.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:51