Doveva essere l’inizio della Terza Repubblica, ma stiamo assistendo all’eterno ritorno delle due grandi anomalie che hanno contraddistinto la politica italiana fin dalla Prima. Una sinistra che, chiusa nel suo recinto ideologico, non riesce ad allargare i suoi consensi oltre la soglia di 1/3 dell’elettorato, nell’ipotesi migliore; e che per superare la storica diffidenza della maggioranza degli italiani, per essere credibile come forza di governo, sia agli occhi dei cittadini che delle cancellerie europee e dei mercati, ha bisogno della legittimazione di una forza centrista e di una figura “tecnica”.
A fronte di questo deficit di credibilità della sinistra, c’è sempre stato un pezzo più o meno consistente, a seconda delle fasi storiche, del mondo democristiano, “moderato” si direbbe oggi, che ha giocato il ruolo di “sdoganatore” e legittimatore della sinistra. Nella prima Repubblica guidando i giochi, nella seconda subendoli. Fino alla caduta del muro il problema non si è posto, vigeva la “conventio ad excludendum” nei confronti del Pci, al governo solo negli enti locali. Ciò non di meno non sono mancate esperienze di governo di centrosinistra - dai primi anni ‘60 con la partecipazione attiva del Partito socialista di Nenni, fino al cosiddetto “compromesso storico”, il tentativo di coinvolgimento del Pci. Nella II Repubblica fu il democristiano Romano Prodi a guidare i primi governi di centrosinistra con l’ex Pci principale azionista di maggioranza, ma dotato di una stampella centrista - prima il Ppi e la piccola formazione dell’ex premier tecnico Dini, poi la Margherita.
Il progetto del Pd, originariamente, doveva servire proprio a superare questa anomalia, la storica “non autosufficienza” della sinistra italiana. Eppure, siamo nel 2013, dopo l’inglorioso fallimento dell’ultimo governo Berlusconi, e torniamo al punto di partenza: Bersani - gli fa onore il suo realismo - è costretto ad aprire alla collaborazione con il centro montiano, consapevole che l’alleanza progressista, da sola, rischia di non avere i numeri per governare. E che anche nel caso li avesse, avrebbe comunque bisogno di spalle più larghe per superare la diffidenza interna e dei mercati. E Monti - esattamente come Aldo Moro negli anni ‘60 e ‘70, quando però era ancora la Dc a distribuire le carte, e come Dini, Ciampi e Padoa Schioppa negli anni ‘90-2000, in una posizione, invece, di totale subalternità - si presta per il ruolo di legittimatore della sinistra. Con l’unica differenza che questa volta l’accordo non è pre-elettorale, ma post-elettorale.
Il calo del Pd nei sondaggi e lo spostamento a sinistra della sua campagna per far fronte alla concorrenza di Grillo e Ingroia sul lato sinistro, hanno indotto Bersani all’apertura nei confronti di Monti, sia per rafforzare la sua personale credibilità internazionale, sia per non dare agli elettori l’immagine di un centrosinistra ancora chiuso nel suo recinto e, dunque, “unfit” a guidare il paese. Ai suoi elettori il segretario del Pd giustifica l’apertura al centro con la necessità di combattere, e ridurre all’opposizione, i nemici storici, «il berlusconismo, il leghismo e il populismo». Ma la realtà è ben diversa: si tratta di evitare alla sinistra un’altra vittoria mutilata. Come ha risposto Mario Monti? Ha ricambiato: «Apprezzo ogni apertura e disponibilità da parte di Bersani». E siccome i sondaggi non sono gran ché, fa anche lui esercizio di realismo e si rimangia l’indisponibilità, precedentemente espressa, a far parte come ministro di un governo di centrosinistra. A chi gli prospetta questa ipotesi, il premier uscente si limita ad osservare che «sono temi prematuri», ma senza escluderla. Forse ad oggi «non esiste alcun accordo con il Pd», ma la propensione, quella sì, se la capolista alla Camera in Lombardia di “Scelta civica per Monti”, Ilaria Borletti Buitoni, invita esplicitamente a votare Ambrosoli, il candidato del Pd alla Regione, facendo infuriare Albertini. Se Bersani è interessato ad una collaborazione, allora «dovrà fare delle scelte all’interno del suo polo», ha detto Monti rivelando che quanto meno sono già iniziate le trattative. Ferma la replica di Bersani: «Il mio polo è il mio polo e nessuno lo tocchi. A partire da lì sono pronto a discutere». Che Monti e Casini pongano al segretario del Pd una pregiudiziale su Vendola è del tutto strumentale. L’alleanza progressista è inadatta a governare non perché ci sia Vendola, la cui forza rappresenta il 3-4%, e che tra l’altro è il governatore di una regione importante come la Puglia, che non sembra in mano ai soviet. È la corrente maggioritaria del Pd, succube della Cgil e delle sue ricette economiche vecchie di mezzo secolo, a non offrire sufficienti garanzie. Non sorprende che Vendola non l’abbia presa bene, ma il patto tra “progressisti e moderati” dopo il voto sembra, se non cosa fatta, uno sbocco inevitabile per entrambi. E lo stesso Vendola ha firmato una carta degli intenti in cui si dice che il centrosinistra dovrà «cercare un terreno di collaborazione con le forze del centro liberale» e dovrà impegnarsi «a promuovere un accordo di legislatura con queste forze». Evidente il vantaggio che può trarre Berlusconi da questa situazione. L’errore strategico di Monti, infatti, è che invece di porsi come nuova offerta politica di centrodestra, chiaramente alternativa alla sinistra, contendendo quindi al Cavaliere il suo elettorato deluso, ha inteso sfidare il berlusconismo puntando su una collaborazione con la parte riformista del centrosinistra, che sarebbe il Pd, proprio in chiave antiberlusconiana. Ma così l’odore di una “Unione 2.0” si fa sempre più persistente, con tutto il suo carico di contraddizioni e litigiosità. Stavolta ancora prima del voto, centristi e sinistra cominciano a litigare tra di loro e al loro interno, mentre Berlusconi può già rappresentare l’unica alternativa al governo dei “tassatori” Bersani-Monti. Sembra uno di quei film in cui il protagonista è condannato a rivivere per sempre la stessa giornata.
Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 10:57