Nulla di nuovo. Sono anni che le valutazioni della Corte dei conti si ripetono uguali a se stesse, in ogni occasione pubblica o nelle audizioni davanti alle commissioni parlamentari. Ma al presidente Luigi Giampaolino e ai suoi collaboratori va comunque riconosciuta la puntualità e la nitidezza dell’analisi, a prescindere dal colore politico, o tecnico, dei governi che si succedono. E quindi, esattamente come anni fa gli allarmi e i suggerimenti della Corte si scontravano con l’operato in direzione opposta dei governi Prodi-Padoa Schioppa prima, e Berlusconi-Tremonti poi, oggi si scontrano anche con le politiche attuate dal governo Monti.
Sia pure restando all’interno dei suoi confini istituzionali, quello adottato dalla Corte nel giudicare l’andamento della finanza pubblica e dell’economia nazionale, e nell’affrontare i problemi che affliggono le amministrazioni pubbliche, è un approccio di natura liberale. Soprattutto, laddove si invita il legislatore a rivedere la spesa pubblica non solo in termini di contrasto agli sprechi e ai privilegi, quindi di una sua mera razionalizzazione, ma anche al fine di ridurre il perimetro dell’intervento pubblico; laddove si ammonisce che il fenomeno della corruzione, proprio perché sistemico, non può essere affrontato solo in termini penali; e laddove come fattori di crescita si indicano la riduzione della pressione fiscale e un programma di effettive dismissioni per abbattere lo stock del debito pubblico. Insomma, il “programma elettorale” che la Corte consegna alle istituzioni e all’opinione pubblica somiglia a quelli di Berlusconi e di Giannino, a prescindere da ogni valutazione circa la loro credibilità personale. Persino sull’idea di un condono fiscale, pur avvertendo che ha un «effetto patologico» se si traduce in una sanatoria, il procuratore generale Salvatore Nottola ha però riconosciuto che «ha le sue ragioni», «motivazioni intuitive e fondate», come «deflazionare il contenzioso e realizzare introiti in tempi rapidi».
Come più volte aveva avvertito, il presidente Giampaolino ricorda che l’emergenza finanziaria, con margini temporali troppo ristretti per agire sulla spesa pubblica, ha reso necessario «un ricorso ad aumenti del prelievo tributario, forzando una pressione fiscale già fuori linea nel confronto europeo e favorendo le condizioni per ulteriori effetti recessivi». Ne deriva «il pericolo di un avvitamento, connesso alla composizione, più che alle dimensioni, delle manovre correttive del disavanzo», troppo squilibrate sul lato delle maggiori entrate piuttosto che su quello delle minori spese. Troppe tasse, pochi tagli alla spesa. Giampaolino ricorda quindi di aver insistito sulla «necessità di puntare sui fattori in grado di favorire la crescita». Innanzitutto, «la riduzione della pressione fiscale che grava sulla “economia emersa”, da finanziare con i maggiori proventi ottenuti dalla lotta all’evasione fiscale e dalla stessa “spending review”, e una più equa distribuzione del carico fiscale». Inoltre, «l’effettiva realizzazione di un programma mirato di dismissioni del patrimonio immobiliare e mobiliare pubblico, al fine di conseguire un consistente abbattimento dello stock di debito». Due temi su cui il premier uscente Monti ha perseverato negli errori dei suoi predecessori.
Così come sul terzo tema: «La pur comprovata maggiore efficacia delle misure di contenimento della spesa pubblica non ha consentito, in presenza di un profilo di flessione del prodotto, la riduzione dell’incidenza delle spese totali sul Pil, che resta al di sopra dei livelli pre-crisi». La spesa pubblica, insomma, è stata efficacemente contenuta ma non ridotta. Per questo, il processo di revisione della spesa e di maggiore efficienza delle strutture amministrative è «da intendere – ribadisce Giampaolino – anche nel significato più impegnativo e complesso di ripensamento del perimetro dell’intervento pubblico e delle modalità di prestazione dei servizi pubblici in un contesto sociale e demografico profondamente mutato». Il che, tradotto, significa che la Corte suggerisce un ripensamento, con l’obiettivo di un arretramento, del ruolo dello Stato.
Anche perché se è vero che la corruzione è divenuta un «fenomeno politico-amministrativo-sistemico», che «oltre al prestigio, all’imparzialità e al buon andamento, pregiudica la legittimazione stessa delle pubbliche amministrazioni e l’economia della nazione», proprio per questo «la risposta non può essere di soli puntuali, limitati, interventi – circoscritti, per di più, su singole norme del codice penale – ma deve essere articolata ed anch’essa sistemica». Il che significa che ci vuole ben altro che una legge anti-corruzione, forse è il caso di intervenire strutturalmente laddove la corruzione si annida.
Ed è negli oltre 5 mila organismi privati (aziende, consorzi, fondazioni, istituzioni, società, ecc.) costituiti e partecipati dagli enti locali, ai quali è affidata la gestione dei servizi pubblici locali, e il cui indebitamento guarda caso è valutato «in oltre 34 miliardi», osserva il pg Nottola nella sua relazione, che «vanno di frequente ad annidarsi fenomeni di corruzione». Ben note sono le situazioni di «dissesto finanziario» in cui versano e le «condotte illecite che si sostanziano in acquisti poco avveduti, illegittime assunzioni di personale e di consulenti».
«Fra enti partecipati e amministrazioni di riferimento – spiega Nottola – si creano a volte scambi di utilità, per cui queste ultime ricorrono, attraverso i primi, a finanziamenti che non sarebbero ad esse consentiti mentre, col ricorso all’indebitamento, le società acquistano beni immobili dell’ente conferente ed effettuano l’esecuzione di opere pubbliche di interesse dell’ente locale».
Il pg si limita a raccomandare che «la materia non sia sottratta, come oggi avviene, al controllo della giurisdizione» della Corte dei conti. Alla quale com’è ovvio non spetta suggerire al legislatore se la via debba essere quella di privatizzare la gestione dei servizi, ma certo il dibattito è aperto e investe anche il tema della corruzione e della malapolitica.
Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:03