Pochi giorni fa abbiamo ricordato le parole di Draghi per smentire la linea difensiva di Monti sulle tasse, l'idea che per salvare il paese non avesse altra scelta che aumentarle. Oggi bisogna fare un altro piccolo sforzo di memoria, ricostruire i passaggi finali della stesura della riforma del lavoro, per smascherare un nuovo scaricabarile del premier uscente. Il Mario Monti che lo scorso 4 aprile presentava in pompa magna come «storica», una «svolta epocale», la riforma del lavoro, è lo stesso che oggi riconosce che «non è andata avanti abbastanza», scaricando la «colpa» su «un sindacato che ha resistito decisamente al cambiamento e non ha firmato l'accordo che gli altri avevano firmato». Quella di Monti è una verità molto parziale. E' senz'altro vero che la Cgil è il sindacato più conservatore e regressista, che ha opposto resistenza alla riforma, soprattutto sull'articolo 18 (come anche gli altri sindacati), ma Monti s'è calato le brache prim'ancora che fosse convocato un solo sciopero o una sola manifestazione.
Ha tenuto il punto per una decina di giorni, ma la riforma è uscita annacquata già da Palazzo Chigi. Il testo arrivato alle Camere era già un fallimento. Fu un aborto spontaneo del governo. Più che la Cgil a resistere, quindi, fu Monti a calarsi le brache. Questa la lettura anche da parte dei principali quotidiani del mondo finanziario internazionale, che per la prima volta criticarono duramente il premier proprio per il flop, la sua «resa», sulla riforma più importante per la crescita e l'occupazione. Il Financial Times parlò di «appeasement», offrendo la propria homepage allo sfogo di Emma Marcegaglia, che definì la riforma «very bad». Ritenendo «preoccupante» che proprio il premier avesse finito per «annacquarla», il Wall Street Journal fu costretto a rimangiarsi in tutta fretta lo spericolato paragone di Monti con la Thatcher, azzardato solo pochi giorni prima, proponendo un'altra analogia “britannica”, ma molto meno lusinghiera: quella con Ted Heath, lo «sventurato» predecessore conservatore della Lady di ferro.
Il WSJ aveva bocciato persino la bozza originaria della riforma, quella che non aveva ancora subito il veto della Cgil, perché prevedeva «una modifica relativamente modesta all'articolo 18», addirittura una «small beer» (robetta da poco, insignificante) «per un paese con i problemi economici dell'Italia». Lapidaria, e sarcastica, la conclusione del quotidiano: «Diranno che una piccola riforma è meglio di niente. Forse. Ma Monti fu chiamato a fare il primo ministro per salvare il proprio paese dal ciglio dell'abisso greco. La riforma del lavoro è una resa a coloro che lo stanno portando in quell'abisso». E non a caso, una settimana dopo il varo della riforma assistemmo al primo “Black Tuesday” dell'era Monti: Borsa giù del 5% e spread di nuovo oltre i 400 punti per la prima volta dall'inizio di febbraio. In quel momento, tra marzo e aprile scorsi, la popolarità e l'autorevolezza di Monti erano all'apice.
Troppo poco era trascorso dal suo insediamento perché i partiti potessero sfiduciarlo, assumendosi la responsabilità di ri-precipitare il paese nel baratro, e lo spread era calato in modo sensibile. Monti avrebbe quindi potuto imporre alle forze politiche e sociali qualsiasi scelta di politica economica, ma decise di non spendere l'enorme capitale politico personale che aveva accumulato. Perché? In un primo momento il premier difese la bozza uscita il 23 marzo dal confronto con le parti sociali, dichiarando «chiuso» l'argomento articolo 18. Poi smentì se stesso, accettando il passo indietro. Ma fu davvero così decisivo il veto della Cgil, o furono altre considerazioni, di natura politica, a pesare? Secondo il Financial Times, dalla sua visita in Asia il premier dedusse che a preoccupare gli investitori era più l'instabilità politica che riforme non proprio incisive. Nel frattempo, le resistenze della Cgil erano state fatte proprie dal Pd, e probabilmente il Quirinale giocò un ruolo decisivo nell'ammorbidire le posizioni del premier, proprio con l'argomento della stabilità politica della “strana coalizione”.
Un testo più coraggioso nel superamento dell'articolo 18 rischiava di spaccare il Pd sul sostegno al governo, o quanto meno di pregiudicare l'ipotesi di una collaborazione futura tra il professore e il centrosinistra, scenario caro al capo dello Stato. Il Monti politico prevalse sul Monti economista, anteponendo un disegno politico per il post-elezioni del 2013 all'agenda riformatrice che il suo governo era stato incaricato di attuare. E' allora che furono poste le basi dei buoni rapporti tra il premier e Bersani che domani, dopo il voto, renderanno possibile un accordo di governo. L'articolo 18, invece, doveva offrire l'occasione per costringere il Pd a decidere una volta per tutte tra linea riformista o camussiana. Male che fosse andata, il sistema politico si sarebbe potuto scomporre/ricomporre attorno all'asse delle riforme, tra un “partito Monti” e un “partito Grecia”. Adesso, invece, Monti è obbligato ad accordarsi col “partito Grecia”. Peccato che una coalizione tra centristi e un Pd a trazione Cgil può partorire solo topolini come la riforma del lavoro.
Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:04