Le stime diffuse dall’Ocse delineano una prospettiva nient’affatto incoraggiante per la nostra economia. Nel 2012 il calo del Pil sarà del 2,2%. Tutto sommato un dato a cui ci eravamo abituati dopo le stime del governo e di altre autorevoli istituzioni, tutte intorno al -2,4%. Ciò che preoccupa è che l’Ocse prevede una cospicua contrazione del Pil anche nel 2013 (-1%), ancor più grave sia perché tra il 2008 e il 2012 si è già contratto molto – alla fine di quest’anno il nostro Pil tornerà ai livelli del 2001 – sia perché a dispetto di una serie di misure che secondo l’esecutivo avrebbero dovuto invertire il trend e rimettere il nostro paese sul sentiero della crescita, seppur flebile. Oltre all’effetto negativo sulla disoccupazione, che nel 2013 salirebbe all’11,4%, restare in una recessione così marcata avrebbe effetti disastrosi sul deficit, che l’Ocse prevede al 2,9% nel 2013 e al 3,4% nel 2014, e che richiederebbe quindi un’ulteriore «stretta di bilancio» nel 2014 per rispettare il previsto percorso di riduzione del debito. Insomma, i sacrifici chiesti agli italiani in questo biennio sarebbero completamente vanificati.
Ma com’è possibile che a fronte dei dati impietosi della nostra economia e di prospettive ancora fosche, i rendimenti sui nostri titoli di stato siano ai minimi? All’asta di ieri il Tesoro ha collocato 7,5 miliardi di Bot a sei mesi con tassi sotto la soglia dell’1%, che non si vedevano dall’aprile 2010, mentre i decennali sul mercato secondario sono tornati ai livelli di giugno 2011. Più che ai risultati concreti e agli effetti di medio termine delle riforme avviate, l’apertura di credito dei mercati nei nostri confronti sembra legata alla credibilità personale del presidente del Consiglio e al miglioramento del “mood” generale dopo le azioni intraprese dalla Bce e le decisioni prese su Grecia e Spagna.
Si può sempre sperare che i mercati tornino più o meno “irrazionalmente” – cioè senza cambiamenti strutturali nei nostri fondamentali economici – ad applicarci tassi di interesse pre-crisi. Ma ciò che emerge da queste stime sull’economia reale è che il governo Monti ci ha fatto solo guadagnare tempo. Forse nell’emergenza, con una coalizione eterogenea e i partiti in crisi, non avrebbe potuto fare di meglio, ma certo non ha alcun senso auspicare “continuità”, come fanno gli “scudieri” centristi del Monti-bis. Per uscire davvero dalla crisi, non restare in balìa dell’umore dei mercati, serve altro: un risanamento virtuoso, cioè meno recessivo, sulla linea indicata da Draghi – tagli alla spesa e non aumenti di tasse – che è opposta a quella perseguita da Monti quest’anno.
Se il professore ha un’agenda per i prossimi anni, è il momento di esporla. Per ora, invece, si è limitato ad affacciarsi nell’agone politico con uscite sibilline, cerchiobottiste, da vecchio democristiano. L’ultima, sulla sanità pubblica, ha scatenato i riflessi pavloviani della sinistra. «La sostenibilità futura dei nostri sistemi sanitari, incluso il nostro servizio sanitario nazionale, di cui andiamo fieri, potrebbe non essere garantito se non si individuano nuove modalità di finanziamento e di organizzazione dei servizi e delle prestazioni». Un’affermazione meramente descrittiva di una realtà incontestabile, persino banale. Il premier non ha accennato a “privatizzare” alcunché, probabilmente si riferiva a fondi integrativi, ticket per fasce di reddito e spending review. E anzi, ha detto che c’è motivo di andare «fieri» dell’attuale sistema, quindi anche della sua natura pubblica ed universalistica.
Ma tanto è bastato a suscitare la levata di scudi, all’unisono, del segretario del Pd Bersani e della segretaria della Cgil Camusso. Allarmante è la negazione, da parte di chi si candida a governare il paese, anche della più elementare e conclamata realtà: la difficoltà finanziaria in cui si troverà, in un futuro non lontano, il sistema sanitario, per l’invecchiamento della popolazione e, quindi, l’allungamento delle cure. Bersani non chiede agli italiani di piacergli, ma di essere creduto perché dirà loro soltanto la verità. Eppure, di fronte alla verità raccontata da Monti preferisce chiudere gli occhi. Sulla sanità pubblica c’è bisogno, invece, di un discorso di verità. Se l’obiettivo era di garantire a tutti gli italiani standard dignitosi di assistenza sanitaria, allora bisogna riconoscere che siamo di fronte a un fallimento. Già oggi la sanità pubblica non è universale, è spaccata in due sia per territorio – a livelli europei in alcune regioni, da nordafrica in altre – che per classi sociali: i ricchi possono permettersi di evitare inefficienze e lungaggini del pubblico. E già oggi, anziani a parte, la gratuità del servizio è merce rara. Anche i ceti medi pagano doppio le prestazioni più comuni: ticket spesso vicini ai costi dei soggetti privati, più le tasse versate allo Stato. Facile pontificare di “principio sacro” per chi può permetterselo, per chi è già iscritto a fondi negoziali, casse e mutue (solo 6,4 milioni di italiani, per un totale di 10 milioni di assistiti), e quindi non vive sulla propria pelle inefficienze e costi diretti della sanità pubblica.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:02