Sentenza Diaz: non applaudire

Hanno «gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero» le violenze della polizia e gli immotivati arresti di massa dei no-global inerti e innocenti, così tuona la Cassazione nelle motivazioni, del “processo Diaz”, che ha decapitato i vertici della polizia. La Cassazione evidenzia, come già fatto dalla Corte d’Appello di Genova, «l’odiosità del comportamento» dei vertici di comando. Un implicito invito al plauso, per le parole forti scolpite nella sentenza, che avrà un’eco amplificata nella cosiddetta opinione pubblica, meglio tra le folle, alimentata da una informazione taroccata che moltiplica il desiderio di illusioni, delle quali non possono fare a meno, allontanando il desiderio della verità, che non hanno mai provato, per dirla con Freud.

Una improvvida invasione di campo deputato alla politica, al commento giornalistico, alle quotidiane dichiarazioni degli opinin maker nostrani e non, che alimentano il dibattito pubblico con esiti nefasti per la comprensione dei fenomeni ora politici, ora giuridici, ora economici, ora sociologici, i quali richiedono competenze specifiche, depurati da posizioni partigiane, da fondamentalismi ideologici, da pratiche autoreferenziali. Non è il compito della Suprema Corte di Cassazione. L’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario (regio decreto 30 gennaio 1941, n° 12) definisce il compito della Cassazione in questo modo: «La Corte Suprema di Cassazione assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge».

La Cassazione non giudica sul fatto, ma sul diritto: è giudice di legittimità. Ciò significa che non può occuparsi di riesaminare le prove, bensì può solo verificare che sia stata applicata correttamente la legge e che il processo nei gradi precedenti si sia svolto secondo le regole (vale a dire che sia stata correttamente applicata la legge processuale, anche in relazione alla formazione e valutazione della prova, oltre che quella del merito della causa). A meno di una settimana dall’inizio del processo in Cassazione, per i fatti relativi alla scuola Diaz, cambiò il vertice del collegio giudicante.

Aldo Grassi, presidente della quinta sezione della Corte di Cassazione che doveva giudicare 25 tra poliziotti e funzionari, condannati in secondo grado dalla Corte di appello di Genova, fu sostituito da Giuliana Ferrua, magistrato torinese e sorella di Paolo Ferrua, docente di procedura penale proprio all’ateneo genovese. Nel collegio giudicante, composto da 5 giudici, oltre alla presidente Ferrua, ci sono due giudici che decisero (insieme all’ex presidente Aldo Grassi) il processo Marcello Dell’Utri: si tratta dei magistrati Stefano Palla e Gerardo Sabeone. Gli altri due consiglieri sono Piero Savani e Paolo Antonio Bruno. Procuratore Generale Pietro Gaeta.

Le osservazioni contenute nella sentenza sul discredito procurato all’immagine dell’Italia nel mondo per la “gravità” dei reati commessi dai funzionari della polizia, come quello della violazione «dei doveri di fedeltà», delle calunnie e dei falsi, non legittima il collegio giudicante a denunciarlo in una sentenza della Corte di Cassazione, che deve assolvere un difficile compito tecnico senza commenti, pur condivisibili, ma inammissibili nel contesto giurisdizionale. Va detto che il collegio giudicante ha debordato dal compito che l’ordinamento gli assegna, avallando, forse inconsapevolmente, che alcuni magistrati, pur competenti, concorrono indirettamente ad usare i giudizi per fini politici.

Per equilibrio la sentenza, così come ha censurato le condotte criminali dei soggetti coinvolti nei fatti oggetto del giudizio, valutando (non è dato capire quale sia il criterio di valutazione) un danno d’immagine alla Nazione Italia, avrebbe dovuto svolgere parallele osservazioni sugli attori dei fatti criminali e dell’agire dei protagonisti che hanno incendiato il G8 di Genova, che hanno commesso con «consapevole preordinazione» l’attacco violento alla «zona rossa», con «caratteristiche denotanti un assetto militare», già da un lungo arco di tempo prima della data dell’evento. «Di chi, in posizione di comando politico organizzativo a diversi livelli» ha causato l’ingiustificabile massacro della città di Genova e dei pacifici residenti.

L’operazione di distruzione della città «si è caratterizzata per il sistematico ed ingiustificato uso della forza» da parte dei c.d. difensori del popolo, della democrazia e della legalità, liberi «di usare la forza ‘ad libitum’». I leader delle contestazioni e della presa della “zona rossa”, Casarin ed Agnoletto dalla vicenda ci hanno guadagnato visibilità e posti in Parlamento. Casarin, mesi prima dell’evento, annunciava «dichiariamo guerra allo Stato», attorniato da fedelissimi con passamontagna sul volto di fronte alle telecamere di tutti i Tg nazionali. Vittorio Agnoletto, il portavoce del Genoa Social Forum ha passato 4 anni al parlamento europeo, eletto con Rifondazione comunista (il partito di Vendola). Nel 2009 si è presentato alle elezioni europee con la “lista anticapitalista”, che non ha raggiunto il 4% necessario.

Luca Casarini, il leader dei “disobbedienti” e delle “tute bianche” e delle occupazioni abusive, con violazione di norme penali di locali ed appartamenti ha continuato con il suo attivismo nel Nord est, ma meno sotto i riflettori. Nel 2008 ha pubblicato con Mondadori un romanzo noir La parte della fortuna. Molti gli articoli apparsi sulla stampa “progressista” straniera impegnati a dare un’immagine totalmente negativa dell’Italia uscita dalle elezioni politiche del 2001, con la polizia che picchiava selvaggiamente i pacifici manifestanti, donne e ragazzini. Mentre tutti noi abbiamo visto i manifestanti mettere a ferro e a fuoco la città di Genova e lanciare bottiglie molotov e ogni genere di corpi contundenti contro le forze dell’ordine.

Se proprio qualcuno ha premeditato delle azioni violente, questi sono i vari Casarin, Agnoletto e Caruso, che per settimane hanno annunciato pubblicamente che avrebbero oltrepassato la famosa linea rossa: questo era possibile solo con la violenza. Lo sapevano bene i magistrati e le forze politiche progressiste, così come i manifestanti.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:54